«Il futuro dei trapianti è nella robotica. A Bergamo la mia più grande fortuna»

IL SALUTO. Michele Colledan, 68 anni, direttore del Dipartimento d’insufficienza d’organo in pensione dal 12 ottobre. «Quanti ne ho fatti io? Almeno 1.000». Il suo successore? «Spero si voglia intensificare l’attività di questo ospedale».

Dice che sin da piccolo sapeva che avrebbe fatto il chirurgo: « Non so se perché nel ramo materno i parenti erano tutti medici, non so se la mia ammirazione per uno zio che faceva il chirurgo ha avuto la sua parte, ma so che quando andavo a casa sua, da bambino, compulsavo i suoi libri di medicina con una passione che ancora oggi non so spiegare: non ci capivo nulla, ovviamente, ma mi intrigavano molto, moltissimo». Michele Colledan, 68 anni compiuti il 9 aprile, direttore del Dipartimento insufficienza d’organo e trapianti, il «re» dei trapianti (un mese fa al «Papa Giovanni» si è festeggiato il 2millesimo di fegato) ha una voce schietta, mentre si racconta, e gli occhi cerulei gli brillano nel raccontare la sua grande avventura da chirurgo, alla vigilia della pensione. Lascerà il 12 ottobre.

Festeggiamenti in cantiere? E poi, dopo il 12 ottobre, cosa farà?

«In realtà sulla pensione ci ragionavo da qualche tempo: pensavo di poter andare avanti ancora un po’, qui abbiamo fatto grandi cose ed è entusiasmante lavorare con una squadra come la nostra, ma a questo punto della mia vita professionale è giusto lasciare spazio ad altri. Non vorrei mai essere la caricatura di me stesso. Sul dopo, ci rifletterò: potrei prendere in considerazione ipotesi di tutoraggio per giovani leve, per esempio, o semplicemente scegliere di dedicarmi alle molte cose che mi piacciono e a cui ho sempre dedicato poco tempo. Intanto, c’è da festeggiare: qui a Bergamo ho vissuto una bellissima stagione della mia vita: c’è una infermiera di sala che lavora con me da sempre, e che va in pensione praticamente insieme a me. Penso organizzeremo qualcosa insieme, per ritrovarci tutti, noi della “grande avventura” dei trapianti».

Già oltre duemila trapianti dal lontano 1997, quando fu avviato il primo programma per il fegato. Ma lei personalmente quanti ne fa fatti?

«Sto elaborando un conteggio proprio in questi giorni. Diciamo un migliaio».

Ai trapianti come ci è arrivato? Anche questi facevano parte dei sogni da bambino?

«Ci sono arrivato per caso. Che avrei fatto il chirurgo lo sapevo da sempre, e ai giovani che vogliono intraprendere gli studi di Medicina dico: fatelo solo se sentite che è la vostra vocazione, le altre motivazioni, quali che siano, economiche, di opportunità di lavoro, non bastano. Ho studiato a Milano, e a Milano mi sono specializzato: sono figlio dell’era del boom dei laureati in medicina, quando c’erano più medici che posti di lavoro. E per cominciare io andai all’estero, a Reims in Francia. Un’esperienza che mi è servita, tantissimo. Nel frattempo, qui in Italia, mia madre si dava da fare per cercare ogni concorso possibile per farmi rientrare. Nel 1986 mi segnalò un concorso al Centro trapianti di fegato al Policlinico di Milano. Accolsi la notizia scettico, non ero convinto, ma andai lo stesso a fare il concorso, con molta circospezione. Non avevo idea che quello potesse essere il mio futuro, e il futuro della medicina».

E invece, fu la strada giusta.

«Fu un grandissimo colpo di fortuna: eravamo un gruppetto di giovani, in un Centro avviato da poco dove potemmo imparare molto, e molto in fretta, e soprattutto avere mano libera in brevissimo tempo. Facevamo esercitazioni sui maiali, e quando cominciai a fare i trapianti mi sembrava di andare sulla luna: stavo lavorando nell’allora centro più attivo d’Italia».

Un colpo di fortuna che poi l’ha portata a Bergamo.

«Diciamo che in questo caso la mia fortuna si chiama Bruno Gridelli: ci conoscemmo al Policlinico, e la nostra diventò una grande amicizia, oltre che un fortissimo legame professionale. Gridelli fu contattato da Antonio Provera, su consiglio di Giuseppe Remuzzi: lo fece perché voleva per Bergamo il meglio per avviare un nuovo reparto di chirurgia che potesse far partire un programma di trapianti di fegato. Si facevano già quelli di cuore, grazie a Lucio Parenzan, e di reni, grazie a Giuseppe Locatelli. Gridelli accettò e portò la sua squadra: ovvero Alessandro Lucianetti, Andrea Segalin e me. Furono tempi epici: ad agosto 1997 fu dato per certo l’avvio del progetto, l’ospedale ci chiese l’elenco delle attrezzature necessarie, a ottobre c’era già tutto. A ottobre si fece il primo trapianto pediatrico, in un anno ne facemmo oltre 40. Per quell’epoca era fantascienza. E poi partì il programma per gli adulti, si allargò ai polmoni, al pancreas, all’intestino. Oggi siamo uno dei pochi centri che effettua tutti i trapianti d’organo, e il centro che in Europa fa più trapianti con tecnica split».

Lo «split» ha reso famoso l’ospedale di Bergamo. Lei è stato il primo ad applicarlo sugli adulti.

«La tecnica dello “split” fu utilizzata per la prima volta ad Hannover, poi implementata negli Usa, fu Bruno Gridelli ad avere l’idea di utilizzarla in modo estensivo per i bambini a Bergamo; da un donatore adulto si possono trapiantare due bambini. Siamo riusciti qui a Bergamo, in alcuni periodi ad azzerare le liste d’attesa per i trapianti pediatrici. Poi, io ho scelto di utilizzare la tecnica per trapiantare due adulti. E si sono fatti anche molti passi avanti anche con le nuove tecniche di perfusione».

Ma il futuro, per la trapiantologia, qual è?

«Partiamo dal futuro della chirurgia; si concentrerà sostanzialmente su tre branche, l’oncologia, la traumatologia e la chirurgia sostitutiva, appunto la medicina riparatrice o rigenerativa. I trapianti, appunto. Da un lato quindi è cruciale insistere sull’importanza della donazione, e quindi anche sull’organizzazione ospedaliera, che deve essere in grado, attraverso reti, di individuare potenziali donatori, preservare gli organi trapiantabili. Dall’altro è cruciale la donazione da viventi: per il fegato è ormai consolidata, per i reni rappresenta anche la metà dell’attività in alcuni centri, ma anche dell’intestino, per esempio, o del polmone. Ma molto si può fare anche con la tecnologia».

La chirurgica robotica?

«L’arrivo del robot è stato rivoluzionario. Applicato sostanzialmente all’inizio solo per l’urologia, ora si allarga sempre più l’utilizzo. Anche in alcune procedure nei trapianti: potrebbe essere il futuro. Ma non solo: per i tumori al fegato, per esempio; siamo pronti, a Bergamo, anche per alcune applicazioni nel pancreas».

C’è qualcosa che avrebbe voluto fare, nella sua lunga carriera all’ospedale di Bergamo e che le dispiace non aver potuto fare?

«Bergamo per me è stato il luogo della maggiore soddisfazione professionale. Lavorare agli Ospedali Riuniti prima e poi al «Papa Giovanni» è stata una grandissima opportunità: quello che abbiamo fatto è un lavoro di squadra, gli infermieri che lavorano in questo ospedale,tutti gli altri operatori sanitari e i tutti i colleghi sono speciali. Hanno una marcia in più, hanno tutti l’orgoglio della propria professionalità, messa al servizio della comunità. E forse sì, però, c’è una cosa che forse non riuscirò a fare, ma non è detto; proprio l’applicazione della robotica per il pancreas».

E il «dopo Colledan» all’ospedale di Bergamo come sarà?

«Confido che la direzione vorrà espandere ulteriormente l’attività trapiantologica e di tutta la chirurgia: per i bimbi siamo forse il centro più importante d’Europa, per quanto riguarda tutti i trapianti, di sicuro lo siamo per l’Italia; per trovare qualcosa di simile a noi bisogna andare molto molto lontano da qui. So per certo che dentro l’ospedale di Bergamo ci sono professionalità giovani perfettamente in grado di sviluppare ulteriormente questa attività. Per trovarne di simili si deve cercare molto, e non dietro l’angolo».

Dei suoi quasi mille trapianti, ne conserva qualcuno nel cuore più di altri?

«Ricordo come se fosse ieri il primissimo, ma li ho tutti nel cuore. Se proprio devo citarne uno, penso a quello da vivente su un bambino, piccolissimo, di intestino: una donazione da vivente, fatta dalla mamma. Il trapianto ha funzionato, ma i danni subiti in precedenza da altri organi purtroppo non hanno garantito la sopravvivenza del piccolo paziente. La mamma mi scrive spesso, mi manda lettere bellissime».

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Quel bimbo non ce l’ha fatta. Come riesce un chirurgo a d affrontare esiti così drammatici?

«Dovremmo non farci mai coinvolgere, per fortuna la mente umana fornisce risorse insospettabili per ricominciare. Sempre. Ma io, per esempio, non ho mai voluto operare i miei figli».

In sala operatoria lei non rinuncia alla musica rock.

«E ad alto volume, mi rilassa, sì. E mi fa stare concentrato. Se posso ascolto gli Who, il mio gruppo preferito. A volte però i trapianti durano di più, e allora metto altro, ma sempre rock però».

Rock come il suo gruppo

«Gli Aut. Min. Rock, una storpiatura da me inventata al posto di Aut.Min.Ric., la sigla che sta per autorizzazione ministeriale ricevuta. La nuova formazione ha 4 medici, una infermiera e un musicista professionista, suoniamo solo cover. E ci divertiamo tantissimo, facciamo concerti benefici, Ecco, questa è una delle cose a cui mi dedicherò dalla pensione in avanti: la musica. E poi la vela e lo sci. E la mia famiglia».

Devono averla vista poco, in questi anni.

«In effetti. Avrò più tempo per mia moglie Lia, e per i miei due ragazzi, Anche se loro ormai sono grandi, sono usciti dal nido: tutti e due bravissimi nella vela. Alvise , 20 anni, studia Giurisprudenza ma è anche iscritto all’Accademia d’arte drammatica a Udine. Sofia, istruttrice di vela, ha 22 anni e studia medicina. Ha scelto Verona, come università; dice che non voleva andare dove potesse essere indicata come “figlia di”. Credo abbia la vocazione anche lei».

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