In cella spazio vitale di 2,6 metri quadrati, ex detenuto vince la causa in Cassazione

IL CASO. Recluso nel carcere di via Gleno per 878 giorni, sarà risarcito con poco più di 7mila euro: «Condizioni inumane». Respinto ricorso del ministero.

«Detenzione attuata in condizioni inumane e degradanti». Può succedere anche nel carcere di Bergamo, dove un detenuto è rimasto per quasi due anni e mezzo in una cella con uno «spazio minimo vitale» di 2,6 metri quadri. Che quella situazione fosse appunto così aspra da essere definitiva inumana e degradante, ora lo ha detto anche la Cassazione, confermando il risarcimento (pari a circa 7mila euro) in favore di un uomo passato da via Gleno.

È l’esito giudiziario di una vicenda particolare che conferma la generale precarietà dei penitenziari italiani. Alla base c’è l’azione avviata da W.L.T., cittadino di origini straniere detenuto negli anni scorsi in via Gleno per 878 giorni, in pratica due anni e 5 mesi, usufruendo «di uno spazio minimo vitale all’interno delle camere di pernottamento di appena 2,6 mq senza la sussistenza di fattori compensativi» (il calcolo si basa sulla superficie della cella divisa per il numero degli occupanti).

L’uomo aveva così fatto ricorso al Tribunale di sorveglianza di Brescia, che gli aveva dato ragione stabilendo una «misura indennitaria» di 7.024 euro: esattamente 8 euro al giorno. Il ministero della Giustizia aveva impugnato la decisione dei giudici bresciani, portando la partita in Cassazione: gli «ermellini», con sentenza del 6 giugno pubblicata nei giorni scorsi, hanno rigettato il ricorso del ministero confermando la legittimità del risarcimento.

Il ministero ha spiegato che «le camere di detenzione ove fu ristretto l’interessato erano dotate di finestre, i servizi igieni erano dotati di finestra e fruibili in maniera riservata, le docce dotate di acqua calda, nelle sezioni 3a, 6a e 9a erano fruibili quotidianamente locali di uso comune. Il detenuto poteva fruire della “custodia aperta”, potendo permanere fuori della camera di pernottamento dalle ore 8,30 alle ore 20,30, poteva permanere nei cortili di passeggio per quattro ore al giorno e poteva fruire dello spazio allestito nella sezione allo scopo di favorire le relazioni interpersonali. L’assistenza sanitaria era garantita per l’intero arco della giornata. L’istituto proponeva un’adeguata offerta formativa e di attività, il detenuto ha poi svolto attività lavorativa in qualità di inserviente di cucina». E dunque, secondo il ministero, la carenza di spazio in cella è stata «adeguatamente compensata e non può da sola far ritenere che il detenuto sia stato ristretto in regime inumano e degradante».

L’uomo aveva svolto attività lavorativa in qualità di inserviente di cucina

Tesi contestata dallo stesso procuratore generale della Cassazione, che ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, oltre che dal difensore di W.L.T. E la Cassazione – presidente Giacomo Rocchi, relatore Giuseppe Santalucia – ha infatti respinto le rimostranze del ministero.

Il Tribunale di sorveglianza di Brescia, spiega la Cassazione, «dopo aver rilevato che il detenuto fu ristretto in una cella con spazio individuale inferiore a tre metri quadrati (i 3 metri quadrati sono un parametro di riferimento per la giurisprudenza italiana ed europea, ndr), ha correttamente osservato che nel caso in esame manca il fattore compensativo della durata contenuta della detenzione, che deve concorrere con gli altri per poter appunto compensare il sacrificio imposto dalla ristrettezza degli spazi in cella. Il periodo interessato dalla assenza di adeguati spazi all’interno della cella è stato infatti, particolarmente ampio, essendosi protratto per ben 878 giorni». In sostanza, se è vero che – giurisprudenza alla mano – la detenzione in spazi così angusti poteva beneficiare di alcuni dei «fattori compensativi» citati dal ministero, nel caso in esame è mancata «la brevità del periodo nel quale si è protratta la condizione di uno spazio personale al di sotto della soglia di tre metri quadrati». Ciascuno di quegli 878 giorni, in realtà, è valso un risarcimento di appena 8 euro.

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