( foto agazzi)
LA STORIA. Ospiti delle suore della Sacra Famiglia di Comonte, Alì e Tahreer sono arrivati a novembre con i bambini. La più piccola, 3 anni, è stata operata al cuore al «Papa Giovanni». La paura è rimasta, ma ora c’è anche speranza.
In un appartamento delle suore della Sacra Famiglia di Comonte, a Seriate, ci sono quattro bambini che non stanno mai fermi: Mohamed, 9 anni, Mayar, di 7, Hamza di 5 e Bushra, 3 anni. Corrono, ridono, scherzano tra loro, poi si impadroniscono della macchina del nostro fotografo e scattano a raffica, incontenibili. «Non avevano mai visto un apparecchio così, a Gaza», dice il papà, Alì Abu Nimr, 32 anni.
La piccola Bushra gioca spostandosi tra le braccia della madre Taheer Abu Takfa e il tavolo attorno a cui siamo riuniti per chiacchierare e cercare di raccontare la loro storia, grazie al fondamentale aiuto della mediatrice culturale Gehad Mohamed, della cooperativa Ruah, che sta sostenendo la famiglia, musulmana e di lingua araba, sin dal loro arrivo in Italia da Gaza. La piccola mangia un cioccolatino che le abbiamo portato con un’attenzione quasi solenne. «Lo adora – dice Tahreer, anche lei 32 anni –. Se potesse, mangerebbe solo quello». Ride, poi si ferma. Gli occhi si riempiono di lacrime senza preavviso. «Quando la guardo così... penso a tutto quello che ha passato. È troppo per una bambina così piccola».
Bushra ha un cuore che è stato riparato da poco dai medici del «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo. Un difetto congenito, un foro invisibile che metteva in comunicazione parti che non avrebbero dovuto parlarsi
Bushra ha un cuore che è stato riparato da poco dai medici del «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo. Un difetto congenito, un foro invisibile che metteva in comunicazione parti che non avrebbero dovuto parlarsi. «Il suo cuoricino faceva troppa fatica – racconta la madre –. A casa le davo una medicina con cui stava meglio. Ma aveva bisogno di un’operazione e a Gaza non era possibile: l’ospedale non esisteva più e con quello che ne rimaneva era impossibile salvarla».
La notte del 5 novembre scorso Bushra, insieme a mamma, papà e ai suoi fratelli, è arrivata all’aeroporto di Milano Linate, a bordo di un velivolo Boeing 767 dell’Aeronautica Militare proveniente da Eilat, accolti da team sanitari dell’Agenzia Regionale Emergenza Urgenza della Lombardia -AREU così da dare a Bushra un’opportunità. Un trasferimento reso possibile grazie a un lavoro di rete che coinvolge la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i ministeri della Difesa, Interno e Affari Esteri, il Dipartimento della Protezione Civile, Regione Lombardia, AREU e le strutture ospedaliere regionali. «Avevamo paura. Paura di tutto. Non sapevamo cosa ci aspettasse. Sapevamo solo che saremmo andati ovunque nel mondo pur di salvarla», dice la mamma. L’intervento cardiochirurgico per correggere il difetto interatriale è avvenuto l’11 novembre.
Dopo l’operazione, Bushra è tornata per due giorni in terapia intensiva. Poi il reparto, l’attesa e, infine, le dimissioni, il 18 novembre. «Quel giorno – dice il padre – abbiamo ricominciato a vivere»
«Quando l’hanno portata via – racconta Tahreer – io non riuscivo a respirare. Pregavo. Chiedevo a Dio di non portarmela via». Dopo l’operazione, Bushra è tornata per due giorni in terapia intensiva. Poi il reparto, l’attesa e, infine, le dimissioni, il 18 novembre. «Quel giorno – dice il padre – abbiamo ricominciato a vivere». «I medici qui sono diventati la nostra famiglia – Tahreer lo dice più volte –. A Gaza avevamo già vissuto momenti difficili, ma non avevamo mai incontrato medici così. Così attenti, così presenti. Ci spiegavano tutto, con calma. Non ci hanno mai fatti sentire un peso. Ci siamo sentiti accolti. Come esseri umani, prima ancora che come pazienti».
Ora, fino a fine maggio 2026, tutti e sei sono accolti in un appartamento delle suore di Comonte-Seriate che hanno risposto all’appello della prefettura per dare accoglienza alle famiglie palestinesi arrivate in Italia. I bambini hanno ricominciato ad andare a scuola da poche settimane (tranne Bushra ,che andrà all’asilo con il nuovo anno) dopo che per due anni a Gaza hanno dovuto dire addio all’istruzione per via della guerra. I genitori stanno studiando l’italiano al Cpia di Bergamo (Centro provinciale istruzione per adulti) in attesa di iniziare a lavorare da gennaio grazie ad alcune realtà del territorio che gli hanno offerto un posto. «L’Italia ci ha aiutati - dice Alì –. Ci ha salvati». E ora vogliono “restituire”. «Per noi il lavoro è dignità – continua –. Vogliamo essere indipendenti, costruire una vita stabile e restituire all’Italia quello che ci sta dando». Prima della guerra, a Gaza, Alì aveva un piccolo negozio di alimentari. «L’ho tenuto per quindici anni – racconta –. Era vicino a casa». Negli ultimi tempi, però, arrivava poca merce. «Non si lavorava più». Entrambi sono laureati in un ambito simile alla direzione aziendale. «Ma siamo pronti a fare qualsiasi cosa», spiega Tahreer.
«Per noi il lavoro è dignità – continua –. Vogliamo essere indipendenti, costruire una vita stabile e restituire all’Italia quello che ci sta dando»
Con l’inizio di una nuova vita, ricordare ciò che c’era prima è inevitabile. Doveroso, anzi. «Prima della guerra vivevamo in un palazzo di cinque piani. In ogni piano viveva una parte della nostra famiglia. Era una vita piena». Poi le bombe. «Prima hanno distrutto le case dei vicini. Poi la nostra».
«Pensavamo che non ci fosse più speranza – dice la madre –. Poi ci hanno detto che saremmo partiti. È stato come rinascere»
Dallo scoppio della guerra, nel 2023, hanno vissuto in otto tende diverse. «Ci spostavamo continuamente - dice Tahreer –. Non c’era mai un posto sicuro. A un certo punto ho pensato che la morte sarebbe stata più dignitosa di quella vita». Il dolore più grande? «La fame – dice la madre senza esitazione –. Quando tuo figlio ti dice: “Mamma, ho fame, voglio un pezzo di pane”, e tu non puoi darglielo». E poi le perdite. «Amici, vicini, parenti – racconta Alì –. Dopo i bombardamenti raccoglievamo pezzi dei corpi. È un’immagine che non mi lascerà mai». In una tenda di quattro metri per quattro vivevano in sei. «C’erano insetti, topi. Il caldo era insopportabile». I bambini dormivano poco. «Avevano sempre paura». La più colpita, tra i figli, è stata Mayar. «Lei ha sofferto più di tutti – racconta la madre –. Un giorno ci hanno detto che dovevamo lasciare la tenda e spostarci ancora. E Mayar ha iniziato a urlare. Diceva che non ci avrebbero mai lasciati in pace, che ci avrebbero seguiti ovunque». Terrore puro. «Io non me lo aspettavo – continua–. Era come se tutto il peso fosse caduto su di lei. E anche ora sta mostrando gli effetti post traumatici più difficili e per cui riceveremo aiuto in ospedale. Servirà del tempo».
Quando è arrivata la notizia della partenza per l’Italia, stavano per essere trasferiti in un’altra tenda. La nona. «Pensavamo che non ci fosse più speranza – dice la madre –. Poi ci hanno detto che saremmo partiti. È stato come rinascere. In quel momento ho sentito che Dio ci stava dando un’altra possibilità».
«Ma non voglio che i miei figli crescano lì. Voglio che studino, che si laureino, che abbiano una vita migliore». Per avere, finalmente, un futuro che non faccia più paura. Adesso, le ferite fisiche stanno guarendo. Quelle invisibili no
Oggi Bergamo è il luogo in cui sperano di fermarsi per sempre. «Gaza resta casa nostra – dice Tahreer – ma è anche il luogo dove abbiamo perso tutto. Prima della guerra la nostra vita era normale. Lavoravamo, i bambini andavano a scuola, ci vedevamo con la famiglia».
Oggi Gaza è lontana, ma non è sparita. «I parenti che sono rimasti dormono ancora nelle tende – raccontano –.Ora è inverno, piove e le tende si allagano». Alcuni trovano rifugio nelle scuole che ormai da due anni hanno interrotto la loro missione. E intanto «si continua a morire, di freddo, di fame, di guerra». Eppure, anche parlando di Gaza, Tahreer trova una frase di speranza. «Spero che un giorno rifiorisca come il sole – dice - Che torni a essere quella di prima». Poi aggiunge, con una lucidità disarmante: «Ma non voglio che i miei figli crescano lì. Voglio che studino, che si laureino, che abbiano una vita migliore». Per avere, finalmente, un futuro che non faccia più paura. Adesso, le ferite fisiche stanno guarendo. Quelle invisibili no. «I bambini hanno ancora incubi - raccontano - Hanno paura di tutti i rumori». Servirà tempo. «Ma siamo insieme», dicono scattando la foto di famiglia. E proprio da qui, in questa quotidianità ricostruita, arriva il loro augurio di Natale, semplice e potente: «Auguriamo a tutte le famiglie salute, forza e di vivere in pace».
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