«Matteo, un dono che ci ha cambiato. Ma alle famiglie serve più supporto»

LA STORIA. Laura Bertolotti ha fondato l’associazione dedicata alla malattia del figlio, rara sindrome genetica (10 casi in Italia).

«Se le formiche si mettono d’accordo, possono spostare un elefante» dice un proverbio del Burkina Faso. Anche a Laura Bertolotti, mamma di Matteo, 13 anni, ragazzo con la sindrome di Pierpont, malattia rara che conta una decina di casi in Italia e circa 300 nel mondo, è capitato di sentirsi «formica».

Con grande coraggio, però, ha dato vita alla prima associazione italiana dedicata a questa patologia, ponendosi nuovi obiettivi, prima inimmaginabili, a sostegno della ricerca. Quando Matteo è nato, nulla lasciava immaginare la complessità del cammino che li attendeva. Ben presto si sono manifestati però dei segnali di allarme: era un bambino gracile e soffriva di convulsioni. Non parlava, non scriveva, comunicava solo con i gesti. I medici pensavano inizialmente che potesse soffrire di un disturbo dello spettro autistico. Ma nessun sintomo sembrava davvero calzare. Le terapie non funzionavano. La famiglia brancolava nel buio.

La svolta nella diagnosi

La svolta è arrivata nel 2018, quando Laura e suo marito sono stati indirizzati all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, struttura all’avanguardia per la diagnosi delle malattie genetiche rare. Grazie a un test del sequenziamento dell’esoma, finalmente è stata formulata la diagnosi corretta: Matteo era il primo caso in Italia di sindrome di Pierpont.

«Così – osserva Laura –, grazie all’ospedale di Bergamo e alla genetista Maria Iascone, abbiamo potuto dare un nome a una condizione tanto sfuggente quanto sconosciuta. A Milano, dove abitiamo, quel tipo di test non era ancora disponibile. È stato un momento di grande dolore, ma anche di sollievo. Finalmente sapevamo con quale malattia avevamo a che fare. Era come uscire da un tunnel d’ansia e disperazione».

Un nuovo percorso

La diagnosi ha segnato l’inizio di un nuovo percorso. Laura ha tentato strade diverse e Matteo ha iniziato a migliorare grazie a logopedia, fisioterapia e terapia in acqua. «Ancora oggi – racconta la mamma – non sa leggere né scrivere, ma parla e comunica attraverso immagini e simboli della comunicazione aumentativa e alternativa. Come spesso accade a bambini e ragazzi con sindrome di Pierpont è iperattivo, ha un disturbo oppositivo provocatorio e ha bisogno di farmaci per contrastare le crisi epilettiche». Ma ride, sorride, ama, e soprattutto ha accanto una madre pronta a combattere per lui.

«Servono tante risorse»

Laura, per anni impegnata come operatrice socio-sanitaria, ha lasciato il lavoro quattro anni fa per occuparsi a tempo pieno di Matteo: «Ci vogliono tante energie e impegno. A settembre, però, dovrò riprendere a lavorare. Non sarà semplice conciliare tutto, ma non si può fare altrimenti, perché servono tante risorse per affrontare in modo adeguato una malattia rara».

In una situazione così difficile, è importante poter contare su un lavoro di squadra: anche per questo Laura si è lanciata in un’impresa che mai si sarebbe immaginata, fondare un’associazione nazionale dedicata alla malattia di suo figlio. Così è nata, nel 2020, l’Associazione Sindrome di Pierpont Italia, con sede a Milano.

Gioco di squadra

«Quando ho ricevuto la diagnosi di Matteo ho cercato disperatamente altre famiglie con cui confrontarmi ma non ne trovavo. Poi ho scritto a Mariella Pierpont, la genetista americana che per prima ha descritto la sindrome. Mi ha incoraggiata: Laura, se vuoi fondare un’associazione, fallo. Ne abbiamo bisogno».

«Siamo un gruppo di mamme coraggiose sparse per il mondo. Cerchiamo di aiutarci a vicenda»

Da quel momento è nata una rete, che oggi unisce più di 300 famiglie nel mondo e dieci in Italia, distribuite tra Milano, Bologna, Roma, Firenze, Pavia e Padova. Laura offre supporto psicologico, consulenza legale, aiuto pratico. In tanti momenti, è lei il primo volto amico che una nuova famiglia incontra dopo una diagnosi devastante: «Siamo un gruppo di mamme coraggiose sparse per il mondo. Cerchiamo di aiutarci a vicenda con un unico obiettivo: migliorare la vita dei nostri figli. Non guarirli, perché da una malattia rara, purtroppo, non si guarisce».

Legami all’estero

Negli ultimi anni, Laura ha intrecciato legami anche all’estero: Boston, Minnesota, Francia, Spagna, scoprendo che in ogni Paese la sindrome assume caratteristiche diverse: «Ogni bambino ha una mutazione genetica (TBL1XR1) sul cromosoma 3, ma con varie sotto-mutazioni. Anche per questo è difficile per i ricercatori individuarla e studiarla, perché ogni paziente presenta sintomatologie differenti. Ognuno è raro e unico».

Laura ha partecipato al meeting della Fondazione Fly Little Bird a Boston, dove ha raccolto informazioni preziose da tradurre e condividere con le genetiste italiane.

Il progetto italiano

A seguito di questo incontro è nato un ambizioso progetto italiano di ricerca per lo studio della malattia «Drop out, Disclosing the role of Pierpont syndrome associated mutations in TBL1XR1». Lo sta portando avanti la giovane genetista Elisabetta Di Fede, vincitrice del bando Giovani Ricercatori 2024 della Fondazione Cariplo, con la supervisione di Cristina Gervasini, docente di genetica medica all’Università di Milano.

«Quando la genetista Donatella Milani, che ci segue da anni, mi ha chiamata per dirmi che avevamo vinto il bando per la ricerca sulla sindrome di Pierpont, mi sono commossa. È stato il regalo più bello, frutto di tanto lavoro, inseguito insieme per tanto tempo». Un progetto che coinvolge anche l’Università Statale e il Policlinico di Milano, e che potrebbe finalmente aprire la strada a una maggiore conoscenza della malattia e forse anche a una cura che migliori la qualità della vita dei bambini affetti dalla sindrome di Pierpont.

Laura è realista. Sa bene che la guarigione non è possibile: «Sappiamo che una malattia rara non sparisce». Ma sogna una vita migliore per suo figlio e per gli altri bambini. Una vita con meno barriere, più supporto, più comprensione.

Le tante difficoltà

«La disabilità in Italia è ancora un tema difficile da affrontare. Le famiglie devono arrangiarsi, cercare da sole soluzioni efficaci per rimediare alle difficoltà quotidiane. Chi ha le risorse per sostenere le terapie va avanti, altrimenti bisogna fermarsi. Spesso quando voglio iscrivere Matteo a un’attività mi chiedono se sia autonomo, perché altrimenti bisogna affiancargli un educatore, sempre a pagamento. Le strutture pubbliche e le UONPIA hanno tempi d’attesa molto lunghi. I centri diurni partono dai 16 anni, e prima? Dove vanno questi bambini? Per questo capisco le famiglie che si ripiegano su se stesse e finiscono per isolarsi, ma non è giusto».

Accompagnare le famiglie

Laura chiede attenzione, ascolto, protocolli chiari. Chiede che le famiglie siano affiancate fin dall’inizio, da quando nasce un bambino con disabilità, con supporto psicologico, percorsi mirati, accesso ai servizi. «Non è possibile che i genitori vengano lasciati soli. In quel momento sembra che il mondo crolli, ci si trova senza informazioni, senza punti di riferimento. Non tutte le famiglie hanno la forza di rialzarsi. Io ce l’ho fatta, ma non è giusto che sia sempre una questione di forza personale».

«Se riusciamo a sollevare dal dolore e dalla solitudine anche una sola famiglia, allora ne vale la pena»

In tutto questo, Laura non è sola. Accanto a lei c’è Davide, un marito che non ha mai smesso di combattere con lei, e un figlio maggiore, Alessandro, che oggi ha 20 anni e si prende cura con affetto del fratellino. Anche lui ha pagato il prezzo di una situazione così complessa, che ha messo duramente alla prova lui e la sua famiglia, spingendolo a crescere fin troppo in fretta. Al momento della diagnosi non è stato facile per lui capire che cosa stesse succedendo e accettare la condizione del fratello. Oggi è un giovane uomo premuroso e attento, che pensa con sollecitudine a Matteo.

Riferimento per tante famiglie

«Mi chiede spesso: mamma, quando non ci sarete più voi, cosa ne sarà di Matteo?» Laura gli risponde che ci sta già pensando, perché una madre vive nel presente, qui e ora, ma non può fare a meno di preoccuparsi del futuro.

Oggi Laura è un punto di riferimento per tante famiglie. A volte riceve chiamate anche a mezzanotte, da genitori spaesati che non sanno cosa fare. «Mi metto nei loro panni, anch’io mi sono sentita così, e mi rendo conto di quanto sia importante ascoltarli». Li accoglie, li inserisce nel gruppo WhatsApp dell’associazione, che è un primo legame con tutti gli altri genitori, in modo che nessuno debba sentirsi solo come è capitato a lei agli inizi.

«Un dono continuo»

«A volte la gente ci dice che una malattia di questo tipo è una disgrazia. Non è così, non sono d’accordo. La presenza di mio figlio Matteo nella mia vita è un continuo dono, nonostante le difficoltà. Non è un luogo comune, penso che davvero dalle crepe possano nascere i fiori più belli e più resistenti. Lo dico sempre alle famiglie che incontro: bisogna provare, sperare e con tanta pazienza andare avanti. Matteo ci ha cambiato, sì, ci ha fatto vedere il mondo da un’angolazione diversa. Oggi non potrei immaginare una vita senza di lui».

Una madre che non si è arresa

Nella storia di Laura ci sono luci e ombre, lacrime e sorrisi, sacrifici e vittorie, dolore e rinascita. È una madre che non si è arresa, riuscendo a trasformare una diagnosi devastante in una battaglia di speranza e d’amore, a favore dei più deboli, e che oggi si impegna duramente perché nessuno resti indietro.

Famiglie come quella di Laura mostrano con gesti concreti e con le loro conquiste quotidiane che anche nella fragilità può nascondersi una forza incredibile. E che, grazie alla determinazione di persone come lei, anche le malattie più rare possono trovare voce, spazio, e forse, un giorno, una cura, grazie a un sostegno costante per la ricerca.

È facile mettersi in contatto con l’associazione e per avere o per offrire supporto, cercando sul web e sui social «Associazione Sindrome Pierpont Italia», perché, come dice Laura: «Se riusciamo a sollevare dal dolore e dalla solitudine anche una sola famiglia, allora ne vale la pena».

© RIPRODUZIONE RISERVATA