«New York l’11 Settembre di 20 anni fa era solo silenzio e fumo». Tu dove eri? Quali sono i tuoi ricordi? - Foto

Quel martedì, tra la gente di Manhattan c’erano anche bergamaschi. Vent’anni dopo abbiamo chiesto loro che cosa è rimasto, nelle loro emozioni e dentro la città, di quell’11 Settembre 2001. Come ha scritto Baricco «tutti ci ricorderemo dov’eravamo in quel momento»: tu che ricordi hai? Dove eri quando hai saputo della notizia che sconvolse il mondo intero?

Stefano Terzi, di Bagnatica , titolare a Manhattan del ristorante Viceversa, a New York era arrivato nel 1996 a 25 anni, e da un anno aveva aperto, con altri soci, il suo ristorante. «Quella mattina – racconta - scesi in strada sull’Ottava Avenue. C’era un fiume di gente, scioccata e silenziosa. Ricordo le sensazioni fisiche: il silenzio della città in contrasto col rumore degli aerei militari sulla testa, la puzza di fumo il giorno dopo, perché il vento era cambiato, un soccorritore che trasportava a braccia un ferito più grosso di lui. Solo alla fine della settimana sono riuscito ad andare a vedere Ground Zero. Appena arrivato a New York avevo lavorato in un ristorante proprio di fronte alle Torri, al n. 7. Erano una vista familiare, non ci badavo neanche più, come quando lavoravo da Cornaro in Piazza Vecchia e non guardavo il Campanone. Ma solo mesi dopo, tornando da Long Island, mi sono davvero accorto che nel profilo della città c’era un vuoto».

Di quell’esperienza gli resta l’abitudine di osservare i dettagli e la consapevolezza che «può capitare». «Quando nel 2009 un aereo ha fatto un atterraggio di fortuna sul fiume Hudson, io ero nel New Jersey per lavoro. Quando ho visto il trambusto sul fiume, ho girato la macchina e sono tornato subito a casa, non contava altro». In città, il cambiamento più duraturo riguarda la sicurezza: «Manhattan ora è piena di telecamere, strade e metropolitane sono controllate, ci sono nuove tecnologie negli uffici pubblici, le chiamate con l’estero sono monitorate. Quanto alla gente, per anni noi newyorkesi siamo diventati più umani, meno centrati solo sul lavoro, adesso stiamo tornando un po’ duri».

Paolo Pesenti, funzionario della Fed di New York e pendolare dal New Jersey , non è mai stato al memoriale di Ground Zero: «Non ci riesco, perché il mio ufficio è lì vicino, prendevo abitualmente il metro che arrivava sotto le Torri e mi sono salvato solo perché quella mattina ero in ritardo. Ora si usa la nuova stazione progettata da Calatrava, bellissima e pochissimo funzionale... L’attacco alle Torri è ormai storicizzato, le nuove generazioni lo conoscono solo dalla tv. L’impatto psicologico resta solo in chi l’ha vissuto. Per un po’ New York sembrò sull’orlo della sparizione: le aziende si spostavano, la gente traslocava. Nel giro di tre anni tutto è tornato come prima, in alcuni casi meglio: il distretto finanziario di Wall Street, tutto di uffici e banche, la sera diventava spettrale. Dopo l’11 Settembre, alcune banche si sono spostate e oggi il quartiere è molto più abitato e abitabile. I prezzi sono un po’ scesi anche perché poi ci sono state altre due grandi crisi, quella finanziaria dal 2007 al 2013 e ora il Covid. Vedremo ora quanto cambierà la città con l’abitudine al telelavoro. Ma le previsioni su questa città sono sempre smentite».

Un obiettivo simbolico

L’11 Settembre ha anche messo in luce quanto sia vulnerabile la città da un punto di vista logistico: «Manhattan è un’isoletta che dipende da punti di entrata che si possono bloccare facilmente. I ponti sono pochi, i tunnel sotto il fiume sono ormai obsoleti, gli allagamenti frequenti. Le infrastrutture di trasporto sono ferme da cent’anni. Ci sono pacchetti di finanziamento governativi ma non partono perché un discorso serio sui trasporti cittadini può essere fatto solo con espropri ai privati e qui è difficilissimo. In caso di evacuazione avremmo le stesse fragilità di allora. E New York sarà sempre un obiettivo simbolico, proprio l’11 Settembre ha mostrato come l’Occidente la senta come la città di tutti, un po’ sogno e un po’ leggenda».

Lice Ghilardi, neuroscienziata originaria di Nembro , è docente alla City University of New York dopo aver lavorato alla Columbia University e al Mount Sinai Hospital. Si occupa di Parkinson, di memoria, di plasticità del cervello. Abita a Manhattan da oltre trent’anni.

«Il nostro cervello si abitua, dimentica le condizioni precedenti per adattarsi a quelle attuali - afferma -. Così non ricordiamo più com’era prima dell’11 Settembre, quando negli Usa arrivavi all’aeroporto all’ultimo momento, compravi il biglietto solo con la carta di credito, senza documenti» . Quella mattina era in taxi, diretta all’aeroporto La Guardia per volare a Washington a un congresso. «Quando sentimmo le prime notizie, né io né il taxista pensammo a un attentato, era inconcepibile. Quando capimmo, fermai il taxi ad Harlem e tornai a casa a piedi. Per strada la gente era arrabbiata, non spaventata. Come americani quel giorno abbiamo perso l’innocenza. Ci siamo scoperti vulnerabili nei confronti del mondo. Io abito a pochi chilometri in linea d’aria da Ground Zero. Arrivarono per giorni detriti portati dal vento, avevamo la calce nei capelli».

Solidarietà e incertezza

New York cambiò, crebbe il senso di cittadinanza: «Ricordo la solidarietà della gente e la determinazione del sindaco Giuliani. C’erano troppe cose da fare per avere paura. Incertezza sì, ed è passata quando in novembre è stata presa Kabul». Così ora il cerchio si chiude, male purtroppo. Biden ha deluso tantissimo gli americani: «A New York sono così arrabbiati che le associazioni dei familiari delle vittime dell’11 Settembre non lo vogliono alle manifestazioni dell’anniversario». Il ricordo dell’11 Settembre coinvolge ancora anche le generazioni più giovani, ma, osserva la neuroscienziata, «la memoria sociale va tenuta viva, anche perché la popolazione di New York è molto mobile, non so quanti residenti di allora vivano ancora qui. Io ci sto bene, trovo che sia gente meravigliosa, quando l’hai capita». In vent’anni è cambiato moltissimo, soprattutto nella limitazione delle libertà personali: «Qui la gente girava senza documento di identità, lo Stato si fidava di te fino a prova contraria. Ora, se viaggi molto, puoi richiedere un certificato all’Fbi che ti passa al setaccio ma poi, se lo ottieni, ti semplifica le trafile aeroportuali. Io ricordo quando i passeggeri venivano festosamente accompagnati dai familiari fin sulla pista…».

Per il 24enne Luca Messi arrivare a NewYork quella settimana di settembre era coronare il sogno di ogni pugile : «Si aprivano le porte dell’America, avevo un sacco di contatti in agenda. Nel pomeriggio di lunedì ero riuscito a trascinare sulle Torri il mio manager Omar Gentili, che non voleva saperne. Ricordo benissimo il viso della ragazza che mi aveva staccato il biglietto, mi chiedo ancora che fine abbia fatto». La mattina dopo, svegliato da rumori e sirene, apre la finestra dell’albergo, di fronte al Wto sulla riva opposta del fiume, e vede il fumo. Scatta anche una foto, ma anche ora fatica a parlare di quel giorno. Appena riaprirono le strade verso sera, il campione riesce ad arrivare in auto fino alla zona bloccata. «Guardavo il disastro e provavo un senso di irrealtà. C’erano decine di persone con in mano le foto dei loro cari e li cercavano disperatamente. La sera dopo tornammo. Manhattan sembrava un cimitero: nessuno in giro e i lumini per le strade e alle finestre».

Messi riuscì a tornare con uno dei primi voli e tornò negli Stati Uniti nel 2005 per il mondiale a Chicago e a New York solo nel 2012. «Il sogno di disputare un mondiale l’ho realizzato, è il lato luminoso della mia esperienza americana. Il lato buio è la voragine di Ground Zero. Quella mattina riuscii a chiamare in Italia un amico con il quale avevo scherzato prima di partire: “chissà se torno a casa…” Quando rispose, gli dissi che forse davvero non sarei tornato a casa. Sbatté giù il telefono pensando a uno scherzo. Poi guardò la tv».

Stefano Deleidi, una vita intensa da laureato in Storia a cadetto militare a imprenditore , offre una prospettiva da Washington, dove vive, coinvolta negli attacchi dell’11 Settembre per lo schianto contro il Pentagono del terzo aereo dirottato, mentre il quarto, diretto verso la capitale, precipitò in Pennsylvania per l’eroica resistenza dei passeggeri. «La città si è trasformata in questi anni, c’è una sensazione di costante presidio con un sacco di gente armata. Il rischio più presente è il terrorismo interno. Ma l’11 Settembre è stato l’inizio del cambiamento. Quando studiavo qui nel 1983, potevi guidare l’auto fino alla Casa Bianca! Nel 2001 lavoravo per una ditta americana, ma ero a Parigi e ho seguito tutto in tv. Da allora il Paese si è chiuso. Ci sono 19 agenzie per la sicurezza nazionale, ho un’azienda qui e garantisco che i controlli sugli stranieri e le loro famiglie - anche se europei - sono quasi eccessivi. Si è creata una specie di psicosi verso tutto ciò che è diverso, anche se gli americani sono sempre stati tendenzialmente isolazionisti. Attenzione a idealizzare troppo un Paese, e lo dico io che ci vivo e lo amo. L’idea di America è sempre valida, ma nella pratica non tutto funziona. Vedi sanità, mercato energetico o agroalimentare. Le mie figlie erano abituate alla scuola disciplinata di Hong Kong: sono passate dalle esercitazioni antincendio a come barricarsi se qualcuno entra armato a scuola». Deleidi è arrivato in Usa da ragazzo nel 1979 «grazie alla madre del sindaco Gori che era la mia insegnante di inglese alle medie e disse che non ero portato per le lingue. Così decisi che avrei imparato l’inglese alla perfezione». Ora si occupa di fusioni e acquisizioni, anche per aziende italiane: «Ci aspettano anni oscillanti, ma ce la faremo».

Sui cartelli: «Chiuso per guerra»

Bergamasco nel mondo, anche Carlo Personeni, presidente dell’ente omonimo, era a New York l’11 Settembre 2001 : «Ero appena arrivato -racconta - e la prima tappa dovevano essere proprio le Torri del Wto. Il pullman fu bloccato, tornammo a piedi in albergo, andando in direzione contraria alla gente che sciamava fuori dalla metro. Nel pomeriggio andai a vedere: non si respirava, macerie e bottigliette d’acqua dappertutto, per sciacquarsi la gola dalla puzza di bruciato e dalla polvere, pesante e appiccicosa, che ricopriva le persone e le cose. Il giorno dopo Times Square era deserta, nelle vetrine erano comparsi i cartelli “chiuso per guerra”. Incontrammo una signora con la borsa della spesa, spersa. Ci disse che il marito e il figlio erano dentro le Torri…».

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