Salari, la forbice si allarga: calano per operai e impiegati, aumentano per quadri e dirigenti

Il confronto 2014-2020 Effetto di Cig, meno straordinari e contratti «pirata». E il Covid ha frenato la crescita.

La parabola di crescita è stata frenata – da ultimo – dal Covid, ma non è che prima della pandemia si volasse alto. I salari dei lavoratori crescono a fatica, nel 2020 sono addirittura arretrati. Ma è scompattando i dati che si coglie una prima forbice: se le retribuzioni di apprendisti, operai e impiegati calano, quelle dei quadri e dei dirigenti crescono. È mettendo a sistema più indicatori che si ricava una fotografia bergamasca da inserire nel più ampio dibattito nazionale.

Il database dell’Inps delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti del settore privato in provincia di Bergamo permette di paragonare la situazione del 2014 (primo anno di riferimento) con quella del 2020 (ultimo anno disponibile): tra i due estremi, il «numero di lavoratori» è cresciuto del 10,88% mentre l’ammontare totale delle retribuzioni versate è aumentato del 7,83%. Se però si ricava la retribuzione media annua di quei lavoratori, emerge un arretramento del 2,75% nel 2020 rispetto al 2014: da 23.546 a 22.899 euro, 647 euro in meno. Una retromarcia che cancella la (poca) crescita che comunque faceva timidamente capolino negli anni precedenti. Rispetto all’anno di riferimento del 2014, nel 2020 le retribuzioni medie annue degli operai sono così diminuite del 4,08% (da 19.353 a 18.563 euro), quelle degli impiegati dell’1,68% (da 25.501 a 25.073 euro), quelle degli apprendisti del 10,32% (da 14.067 a 12.616 euro); le retribuzioni dei quadri sono invece aumentate del 4,7% (da 62.971 a 65.932 euro), quelle dei dirigenti del 6,02% (da 132.971 a 140.974 euro).

Prima del Covid

La pandemia, la cassa integrazione, meno straordinari. Contratti nazionali «datati» e contratti «pirata», la stagnazione dell’economia, una scarsa «premialità». Come si spiega il fatto che anche a Bergamo, come nel resto d’Italia, i salari vanno al rallentatore? Gianni Peracchi, segretario generale della Cgil di Bergamo, aggiunge altri dati, elaborati dal sindacato: tra il 2014 e il 2019 (dunque senza più la variabile del Covid) la retribuzione lorda oraria in Bergamasca è passata da 14,1 a 14,4 euro, cioè 30 centesimi in più; la media italiana è stata di 40 centesimi in più, quella lombarda di 20 centesimi in più (ma i lavoratori lombardi nel 2019 erano pagati in media 15,7 euro lordi l’ora, cioè 1,3 euro in più dei bergamaschi). I laureati bergamaschi invece hanno una retribuzione media lorda di 19,2 euro, contro i 22,7 euro di media lombarda.

«Al netto di aiuti e sussidi, sia in termini economici che di welfare, alle fasce più fragili della popolazione più lavoro, più salario, più valore aggiunto della produzione sono il miglior investimento per fare ripartire il Paese, accompagnato da una serie di riforme strutturali»

«Da tempo e specialmente dopo l’acuirsi della crisi dovuta alla pandemia, stiamo ponendo al centro delle agende il tema del salario», premette Peracchi: i dati dal 2014 al 2019 disegnano «un incremento davvero modesto – prosegue il sindacalista -. In termini assoluti gli stipendi in provincia di Bergamo si attestano a valori più bassi rispetto a quelli lombardi. Vogliamo porre l’attenzione in particolare sulle paghe orarie dei laureati bergamaschi, con una differenza di compenso notevole rispetto alla media lombarda».Che fare, dunque? «Al netto di aiuti e sussidi, sia in termini economici che di welfare, alle fasce più fragili della popolazione – rileva Peracchi – più lavoro, più salario, più valore aggiunto della produzione sono il miglior investimento per fare ripartire il Paese, naturalmente accompagnato da una serie di riforme strutturali del nostro sistema».

«Rafforzare la contrattazione decentrata a obiettivi, per tenere insieme produttività e costo del lavoro. La decontribuzione deve andare a favore del lavoratore»

Ma perché i salari crescono poco e anzi sembrano tornare indietro? «Ci sono diversi fattori – ragiona Francesco Corna, segretario generale della Cisl Bergamo -. La mancata produttività non favorisce gli investimenti e i contratti migliori. Anzi, a livello nazionale si affermano anche i “contratti pirata” (accordi sottoscritti da organizzazioni sindacali e datoriali secondarie ma applicati su più larga scala, ndr) che portano ad abbassare la contrattazione di riferimento. Servirebbe rafforzare la contrattazione decentrata a obiettivi, per tenere insieme produttività e costo del lavoro. La decontribuzione deve andare a favore del lavoratore».

«Questione di lungo corso»

Un’ulteriore spiegazione «matematica», che si ottiene scavando ulteriormente nei dati dell’Inps, è anche nella diminuzione del numero di giornate medie per ciascun dipendente: con meno giornate di lavoro (nel 2020 incidono i riflessi della pandemia, a livello più generale una chiave di lettura è anche quella della durata dei contratti), si portano a casa meno soldi.

«Gli stipendi sono abbastanza fermi, sono cresciuti di pochissimo nel tempo anche rispetto all’inflazione. Questo è legato al fatto che l’Italia è cresciuta poco: poca crescita, quindi minori margini per le aziende e meno disponibilità per gratificare i dipendenti»

L’assottigliamento dei salari, soprattutto se si compara l’Italia al resto d’Europa, «non è questione recente o completamente attribuibile solo al Covid – riflette Marcello Razzino, presidente dell’Ordine dei consulenti del lavoro di Bergamo -. Gli stipendi sono abbastanza fermi, sono cresciuti di pochissimo nel tempo anche rispetto all’inflazione. Perché? Questo è legato al fatto che l’Italia è cresciuta poco: poca crescita, quindi minori margini per le aziende e meno disponibilità per gratificare i dipendenti.

Tutto ciò è andato peggiorando col Covid: i rinnovi contrattuali che potevano sancire aumenti si sono congelati, anche se ora si sta cercando di ripartire. Il 2020 ha pesato con cassa integrazione, meno straordinari, meno benefit. Sullo sfondo c’è un altro problema di lungo corso: il costo del lavoro in Italia è altissimo, e poiché incide molto sulle aziende, non favorisce la disponibilità dei datori di lavoro». In un quadro plumbeo, c’è però qualche segnale incoraggiante? «Questi ultimi mesi sono segnati dal fenomeno delle dimissioni volontarie – osserva Razzino -: in alcuni settori si nota una ripresa e le aziende cercano professionalità molto specializzate. Proprio nei confronti di queste figure le aziende sono disposte a mettere sul piatto qualcosa in più in termini economici».

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