( foto Buscarino)
TEATRO DEL SACRO. Sarà il Teatro delle Grazie a ospitare l’11 novembre «Là dove finisce il buio», spettacolo dedicato ai due sacerdoti incarcerati nel 1943. Il regista e attore Panzeri: sono un corpo prestato alla vita di don Bepo che racconta il suo amico e l’avventura al Patronato.
Allievo dell’indimenticato Giulio Bosetti, è l’attore e regista Stefano Panzeri, che da una quindicina d’anni si dedica al teatro di narrazione, l’interprete e regista di «Là dove finisce il buio», lo spettacolo con il quale prosegue l’11 novembre alle 20.45, al Teatro alle Grazie di viale Papa Giovanni, la rassegna «Teatro e Cinema del Sacro», progetto culturale promosso dall’Ufficio per la Pastorale della Cultura della Diocesi di Bergamo e dagli Uffici del Vicariato Pastorale e organizzato dagli Istituti Culturali Diocesani (tra cui la Fondazione Adriano Bernareggi) con il supporto di deSidera.
Lo spettacolo - scritto da Marialuisa Miraglia, con le musiche originali dal vivo di Simone Riva – è realizzato con il patrocinio della Diocesi di Bergamo, produzione deSidera/Teatro de Gli Incamminati, co-produzione Fondazione Adriano Bernareggi, con il sostegno del Comune di Osio Sotto. Nel lavoro si immagina un dialogo tra don Bepo Vavassori e don Antonio Seghezzi nel dicembre 1943, a Bergamo. Nella cella di un carcere c’è un uomo inginocchiato. È don Bepo Vavassori, che dà vita a un monologo che è insieme diario e preghiera. In una cella vicina, invisibile, è rinchiuso l’amico don Antonio Seghezzi, arrestato per aver dato aiuto ai giovani renitenti alla leva.
Una storia di fede e amicizia, che si intreccia con quella di altri protagonisti della Resistenza bergamasca. Uno spettacolo per «fare memoria», come lo aveva definito don Davide Rota Conti, direttore dell’Ufficio per la Pastorale della Cultura: «Fare memoria è un atto di responsabilità e di gratitudine verso il passato, che diventa luce per leggere il presente e costruire il futuro. In occasione dell’80° e del 50° anniversario della morte di don Antonio Seghezzi e di don Bepo Vavassori, la Diocesi di Bergamo ha voluto promuovere una produzione teatrale che sapesse restituire la profondità e la forza di due figure sacerdotali che, nella drammaticità del loro tempo, seppero testimoniare il Vangelo con coraggio, intelligenza e dedizione».
Il titolo, «Là dove finisce il buio», aveva spiegato l’autrice, la giornalista e scrittrice Marialuisa Miraglia, è nato «dal desiderio di raccontare una luce possibile, anche nei momenti più bui. Il buio del carcere, il buio della guerra, il buio della paura. Ma anche la capacità di questi due uomini di guardare oltre. Di sperare, di amare, di credere. È un titolo che racchiude ciò che ho voluto trasmettere: il loro sguardo rivolto sempre a un oltre».
«Da una produzione richiestami da deSidera Teatro, dato che spesso collaboro con loro e sono stato ospite delle loro rassegne, di costruire uno spettacolo che raccontasse la figura di don Antonio Seghezzi. Insieme a me hanno contattato la giornalista e scrittrice Marialuisa Miraglia a cui hanno chiesto di scrivere il testo, mentre io mi sono occupato di portare quel testo in scena e di trovare un musicista, Simone Riva, che componesse delle musiche originali, e curare la regia dello spettacolo».
«Esatto, vi entra perché nel momento in cui ci siamo trovati ad affrontare la figura di don Seghezzi, quando Marialuisa Miraglia si è trovata a scrivere questo lavoro, ha pensato di collocarlo in modo che non fosse solo agiografico, che ne celebrasse i meriti, ma a dargli un perché: perché raccontiamo questa storia? E l’abbiamo trovato nella sua amicizia con don Bepo Vavassori. Nello spettacolo è infatti proprio lui che racconta del suo amico, la storia di due persone - Bepo e Antonio - in un andirivieni spazio-temporale di alcuni momenti di quando erano vicini di cella nel carcere di Sant’Agata. Don Bepo racconta la vita di don Antonio e anche la sua».
«Per quanto riguarda il lavoro di regista, da una quindicina di anni metto in scena dei monologhi di narrazione dove non necessariamente c’è un personaggio, ma ci sono io, Stefano Panzeri, che racconta un personaggio. La narrazione è un po’ un genere ibrido tra il teatro, il cinema e la recitazione realistica.Pensiamo per esempio al Paolini di “Vajont”: non interpreta un personaggio, ma è lui che racconta una storia. Nei miei spettacoli non creo un vero personaggio, in realtà io sono don Bepo, nel senso che sono un corpo prestato alla vita di don Bepo filtrato dal punto di vista della regia. Parliamo comunque di due figure molto note e quello che può dare il teatro è quello che non trovi in un libro, è l’interazione con il pubblico. Mi sono auto diretto, ho cercato di creare uno spazio che fosse una sorta di metafora della cella e una postazione del qui e ora come se don Bepo fosse ancora vivo, perché poi raccontiamo anche della sua avventura del Patronato».
«Esatto, e io credo che la memoria funzioni quando trova dei punti di contatto con la vita di chi quella memoria l’ha vissuta, se no è Storia. Ed è un po’ il problema che abbiamo oggi, conosciamo la storia, ma se non abbiamo memoria, parlo delle guerre per esempio, non riusciamo a interiorizzarla fino a sentirla nostra di nuovo e proprio riducendo questa storia alla relazione tra due amici e cercando di evitare il più possibile l’agiografia, lo spettacolo puntava proprio lì, a far sì che la Storia diventasse memoria».
«Perché in uno spettacolo di parola, come questo, consente al pubblico di fare una pausa, una pausa dalle parole e dalla visione. Nel vedere un musicista che si esibisce si sente anche una sorta di sospensione, nel vedere una gestualità fluida, un modo di creare quei suoni qui e ora aiuta a creare un mood come la colonna sonora di un film o di uno spettacolo, ma anche a far sì che le emozioni si depositino. I suoi interventi, quando non sono a sostegno della parola, sono comunque a sostegno del lavoro, permettono ai frammenti di depositarsi come in un liquido dove si depositano i sedimenti, le parole della narrazione per un attimo si fermano, si depositano nell’immaginario degli spettatori e poi si riparte».
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