«La violenza maschile è il prodotto di fattori culturali e identità fragili»

SAPIENS FESTIVAL. La psichiatra e psicoterapeuta Emi Bondi presenta il 2 dicembre al Circolino in Città Alta il libro «Maschio fragile». «Nuove forme di disagio, i ragazzi si misurano con una realtà più competitiva e faticano a costruire progetti di vita».

Infanzia iperprotetta, e/o trascorsa sullo smartphone, lontano da responsabilizzazioni e rapporti in carne ed ossa: «le conseguenze sono chiare: una generazione ansiosa con scarse abilità relazionali ed empatiche». In questo quadro, «è il sesso maschile a detenere un particolare primato di fragilità e vulnerabilità». «Il maschio fragile» si intitola, non a caso, il libro scritto, con la collega Carla Emilia Ramacciotti, da Emi Bondi, psichiatra e psicoterapeuta, direttrice del Dipartimento di Salute mentale del Papa Giovanni, recentemente pubblicato da Mondadori (pp. 129, euro 18). L’autrice lo presenterà il 2 dicembre, alle 20,45, al Circolino (vicolo S. Agata 19, Città Alta), nell’ultimo incontro di Sapiens Festival 2025.

Dottoressa, su quali indicatori clinici e sociali si basa l’osservazione che, negli ultimi anni, molti uomini appaiono più spaesati e più fragili? E in che misura questa lettura tiene conto del fatto che, in passato, la sofferenza psichica maschile era meno visibile e meno diagnosticata?

«Non ci basiamo solo su impressioni cliniche, ma su un insieme di indizi: dati epidemiologici, ricerche internazionali e osservazione sul campo. Nel libro mostriamo, ad esempio, come negli ultimi anni si sia registrato un aumento significativo di ansia, depressione e ritiro sociale negli adolescenti. In molti Paesi, Italia compresa, diversi osservatori segnalano un incremento dei tentativi di suicidio tra i minori e un aumento del disagio emotivo soprattutto tra i ragazzi. A questo si aggiunge un dato molto significativo: la crescita costante dei Neet, giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione. In Italia rappresentano una quota tra le più alte d’Europa. È vero che in passato la sofferenza maschile era meno “rilevata”: veniva coperta da alcol, lavoro, rabbia, o semplicemente non nominata. Oggi però non vediamo solo più diagnosi: vediamo forme nuove e più precoci di disagio, come dipendenze digitali, drop-out scolastico e comportamenti a rischio. Sono cambiati i contesti di crescita, non solo gli strumenti di misurazione: i ragazzi si misurano con una realtà più veloce, più competitiva e meno prevedibile, e molti, soprattutto i maschi, faticano a costruire un’identità stabile e un progetto di vita».

Da cosa derivano, sul piano psicologico e neurobiologico, le differenze di genere nell’insorgenza delle patologie psichiche?

«Sono il risultato di un intreccio di fattori biologici ed educativi. Nel libro ricordiamo che il cervello maschile matura più lentamente in alcune aree deputate al controllo degli impulsi e alla regolazione del comportamento, in particolare la corteccia prefrontale. A questo si aggiunge un fattore culturale: i maschi sono ancora meno abituati, fin da piccoli, a verbalizzare il mondo interno. Ciò li porta a riconoscere meno la sofferenza e a esprimerla più spesso attraverso l’azione o il ritiro, piuttosto che la parola. Sul fronte epidemiologico, il quadro è chiaro: le donne riportano più spesso sintomi depressivi (in uno studio italiano recente: 25,5% delle donne rispetto al 14,7% degli uomini nell’arco della vita), ma i suicidi sono in larga maggioranza maschili. In Italia, negli ultimi anni, circa il 75% delle morti per suicidio riguarda uomini. Il maschio soffre in silenzio, chiede meno aiuto, e quando agisce il dolore lo fa spesso in modo improvviso, impulsivo e radicale».

Perché in questi momenti critici il ricorso alla violenza si propone in modo statisticamente più frequente tra i maschi?

«I dati parlano chiaro: la grande maggioranza degli atti violenti (dalle risse ai reati gravi ai femminicidi) è perpetrata da uomini. La violenza maschile è il prodotto di fattori culturali e psicologici: retaggi del patriarcato, educazione alla repressione emotiva, aspettative di controllo e successo. A questo si aggiungono differenze biologiche. La risposta allo stress nei maschi è più spesso orientata verso l’azione. Nel capitolo sul narcisismo maschile mostriamo come molti femminicidi siano commessi da uomini con strutture narcisistiche fragili, incapaci di tollerare il rifiuto o la perdita. Quando l’identità poggia su un equilibrio precario, il limite imposto dall’altro può generare una tempesta interna che alcuni non sanno contenere. La violenza è quasi sempre la punta dell’iceberg di una fragilità identitaria profonda: paura di essere irrilevanti, dipendenza dallo sguardo dell’altro, incapacità di gestire la frustrazione, e difficoltà strutturali nel trasformare l’emozione in parola invece che in azione».

Lei ha sottolineato che molti femminicidi rappresentano l’esito di un malessere profondo e prolungato, rimasto senza ascolto né cura. Eppure la maggior parte degli uomini sofferenti non rivolgerebbe mai la violenza verso l’altra persona, semmai verso di sé. E soprattutto: quali strategie di prevenzione si dovrebbero attivare per intercettare prima questi percorsi di deterioramento?

«È un punto fondamentale. Nell’agire violento c’è sempre una dimensione di volontarietà e di responsabilità individuale: non esiste fragilità, disagio o diagnosi che giustifichi il gesto violento. Ogni individuo, di fronte alla rabbia, al rancore, alla frustrazione o a una ferita narcisistica, compie comunque una scelta. Le traiettorie diverse dipendono da molti fattori: caratteristiche di personalità, storia di attaccamento, modelli relazionali osservati nell’infanzia, capacità di regolazione emotiva. Questo non significa in alcun modo attenuare la responsabilità di chi compie violenza. Significa comprendere che l’agito finale è spesso l’esito di una lunga storia, di un modello di funzionamento che si è strutturato nel tempo. Per questo è importante individuare precocemente segnali come isolamento, irritabilità, uso di sostanze, gelosia patologica, dipendenza affettiva o ritiro depressivo. E servono servizi realmente accessibili, spazi di ascolto non stigmatizzanti e una cultura in cui anche un uomo possa chiedere aiuto senza viverlo come un fallimento della propria identità».

Quando parla di maschio contemporaneo, lei descrive un’identità sospesa «tra il vecchio dominio e la nuova marginalità».

«Significa che il maschio sta perdendo un ruolo tradizionale senza averne ancora acquisito uno nuovo. Un tempo deteneva potere economico, sociale e simbolico; oggi questi privilegi sono caduti, ma le competenze emotive e relazionali necessarie per la nuova parità spesso non sono state interiorizzate. Questa transizione produce oscillazioni emotive molto forti: senso di inadeguatezza, paura di essere esclusi, rabbia quando ci si sente “scavalcati”. Un’identità in bilico, non per colpa degli uomini, ma per un cambiamento troppo rapido».

Lei mette in relazione il calo dell’empatia con la crescita in ambienti digitali, l’impulsività tipica dell’adolescenza e lo sviluppo incompleto del senso di responsabilità. Come si spiega l’assenza totale di empatia e consapevolezza mostrata dal gruppo di adolescenti che ha aggredito, a Milano, uno studente della Bocconi? Come interpretare comportamenti che violano persino codici tradizionali di lealtà maschile (come l’idea del confronto «alla pari»)?

«Questi episodi, purtroppo non isolati, vanno letti dentro tre coordinate che consideriamo centrali: l’adolescenza “orfana” di adulti, il gruppo dei pari che scivola verso forme di baby gang e l’ambiente digitale come amplificatore. Sono ragazzi cresciuti in contesti dove spesso mancano figure autorevoli capaci di porre limiti e di contenere la rabbia; il gruppo diventa il luogo in cui cercare identità e riconoscimento, ma può trasformarsi in una bolla chiusa che esalta la sopraffazione. Il digitale, poi, aggiunge una dimensione di “spettacolo”: si filma, si posta, si cerca visibilità attraverso l’atto violento. In questo quadro, anche i codici tradizionali dell’“onore” maschile saltano: non c’è più l’idea del confronto alla pari, ma solo la logica del branco e del like».

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