Mario Donizetti compie 90 anni: «Nella vita ho incontrato Platone e Costanza»

Da due anni il pittore vede pochissime persone: anche oggi sarà un giorno di festa intimo e familiare. Ha un’opera importante in testa ma per ora è ferma: «Preferisco suonare la mia musica o comporre endecasillabi»

Oggi compie 90 anni, Mario Donizetti. Ma non ha nessuna voglia di festeggiare. La grande casa-torre in cui vive in Città Alta, dal 2020 quasi come un recluso, è infinitamente vuota da quando è morta Costanza, la moglie del pittore, la Musa se volete, ma anche l’amministratrice intelligente delle sue amicizie e dei suoi interventi pubblici e delle sue azioni... È un Museo dell’Assenza questa dimora, anche se l’immagine elegante, finemente proporzionata, rinascimentale di Costanza si riverbera in decine di ritratti - dipinti, pastelli, sculture - sparsi per tutta la casa, dal piano terreno alla cucina on top . «Una grandissima persona - ricorda Donizetti, cercando di mettere tra sé e il suo giudizio una impossibile distanza -: nemmeno lei sapeva quanto. Autentica. Se mi guardo indietro, io in fondo ho fatto tutto per lei: lo studio della tecnica, il lavoro, i quadri... Anche questa casa - era un rudere cadente - l’ho restaurata e realizzata per lei».

Si sono conosciuti a qualche centinaio da passi da qui, in Biblioteca Mai, e hanno vissuto più di 60 anni insieme. Costanza, nata a Napoli e iscritta all’Università Bocconi di Milano, tramite alcune compagne che conoscevano quel giovane artista aveva ricevuto un invito a visitare il suo studio, ma il loro primo incontro avvenne in Piazza Vecchia: «Alternavo il mio lavoro - ricorda lui, sintetico - a lunghi periodi di studio nella silenziosissima sala di lettura della Mai. Incontrai in quel paradiso Platone e Costanza».

Lei, donna, rammentava meglio i dettagli: «Quel giorno in biblioteca stavo consultando un vecchio testo in lingua inglese che, per strana coincidenza, proveniva da un lascito di un monsignor Donizetti, prozio di Mario. Nel suo studio andai poco dopo, in compagnia di un mio fratello piccolo e di una amica. Mi mise in posa e mi disegnò gli occhi e la fronte. Fu il primo di una innumerevole serie di disegni».

Casa Donizetti è in alto nella Città antica, parte avvantaggiata già dalle fondamenta. Quasi si cimenta con la Torre del Gombito. Guardando da una finestra quattrocentesca, che lui fece riaprire quando ci venne ad abitare, ci si trova appena sotto l’altezza della Cupola del Duomo, con il suo Sant’Alessandro dorato, luccicante in un cielo invernale freddo e sereno.

Novant’anni sono tanti. Non ha bisogno di guardarsi indietro Mario, sono ancora tutti qui, affollati sulla linea di un traguardo invisibile, che per lui oggi sarà una giornata privata, da spendere con le persone più vicine, i suoi nipoti. Novant’anni nuotati quasi sempre in senso inverso alla corrente.La prima cosa che affiora dal vaso della memoria sono i volti dei suoi amici: Ermanno Olmi, Vittorino Andreoli, Vittorio Feltri, Sgarbi, Lucio Lami. Le discussioni, in questa casa, con Emanuele Severino: «Da qualche parte ho i suoi libri di filosofia, annotati. Ma da quando ho fatto il trasloco - ha lasciato lo studio di via Colleoni, ndr - c’è ancora tanta roba da rimettere in ordine...».

Poi, dal silenzio del tempo passato arriva ancora il clangore delle sue infinite battaglie contro l’astrattismo e quello che lui chiama «l’informalismo» dell’arte contemporanea, la pittura che vorrebbe prescindere dal rispetto della Forma con cui i fenomeni ci vengono incontro: dialogando a distanza con filosofi antichi (Kant, Hegel, Sant’Agostino) e moderni, Donizetti per sostenere le sue tesi si avvale anche delle più recenti scoperte scientifiche sul cervello «plastico», modificato dalle percezioni - e non viceversa, come pensa il soggettivismo di quasi tutta la cultura contemporanea. «Avallare l’informalismo - dice - significa mettersi su una china pericolosa dove bello e brutto, dipendendo da un giudizio arbitrario, si confondono».

Sfogliando il bel libro di Silvana Milesi «Mario Donizetti... o del corpo-spirito» (Corponove), che compendia con precisione questa lunga storia, scorrono i ritratti di Valentina Cortese, Giorgio Albertazzi, Carla Fracci. E tornano alla memoria le formidabili battaglie di Donizetti per la tutela dei Beni culturali, dalla «Madonna di Alzano» di Giovanni Bellini dell’Accademia Carrara finita «sotto un ampio e basso lucernario» che ne scoloriva il bellissimo manto azzurro scuro, alle sue critiche, documentatissime, ai restauri più famosi del ’900, come quello del Cenacolo di Leonardo. Le copertine, negli anni ’80 e ’90, di «Time», una delle riviste più famose del mondo, con i suoi ritratti: Giovanni Paolo II, Diana, Indira Gandhi, Deng Xiaoping.

Nel 1992 mezzo mondo vide il lungo documentario girato a Bergamo da Cnn International, nel quale Elsa Klensch diceva che «la qualità senza tempo dei suoi dipinti lo ha reso famoso in tutto il mondo» come uno dei protagonisti dell’arte contemporanea, nel ramo poco frequentato della pittura figurativa e realista. Per tutto quel decennio Donizetti si dedicò alle grandi tele dei «Vizi capitali», eseguiti con una delle sue tecniche innovative, il pastello encaustizzato: Superbia, Invidia, Ira, Accidia, Avarizia, Gola e Lussuria nel 1999 riempirono Palazzo della Ragione.

Sono due anni che Donizetti non va più ad Aquileia («il Covid non me lo ha più permesso»), la sede dei soggiorni estivi con Costanza, oltre che del suo Museo Scuola internazionale. Ha ancora un grande dipinto in lavorazione, un progetto importante, ma da tempo è in stand-by: «Ho fatto tanti disegni...». Ogni tanto qualcuno lo tampina, vorrebbe uno schizzo, una traccia dalla mano rotonda del maestro, ma non è tipo da disperdersi in quisquilie. Piuttosto si mette alla tastiera, a comporre musica - altra sua passione. Scrive endecasillabi divisi per terzine, mai abbandonando quel gusto per il metro, la misura, per la forma che ha segnato come un imprinting tutta a sua esistenza. Nel giorno del suo compleanno gli tornano alla memoria le rime «petrose» di Dante: « Ahi angosciosa e dispietata lima/ che sordamente la mia vita scemi,/ perché non ti ritemi / sì di rodermi il core a scorza a scorza? ».

Vede poca gente, anche per motivi di prudenza profilattica, in tempi di pandemia. Ogni tanto scende con il suo ascenseur d’altri tempi (nel quale è installato un telefono a cornetta) al piano della strada, la attraversa ed entra nel convento delle Orsoline di fronte. Le litanie e i canti delle suore lo rasserenano; a volte si impegna con loro - incuriosite e divertite - in qualche disputa teologica d’alto livello, in qualche quaestio quodlibetalis sulla natura dell’Essere supremo, o sul modo corretto di rivolgersi a Lui in una preghiera che non Gli risulti presuntuosa, petulante, finanche molesta.

Non è un «fedele» nel senso comune del termine Donizetti, ma non si definirebbe mai «ateo»: «Lo dicono i teologi più avveduti: l’ateo non esiste. È facile fraintendere: non è ateo colui che si rifiuta di dire di Dio cose che non hanno senso, attributi che non possiamo indagare. Se Egli è la Causa prima, trascendente, come evidentemente mostra la Ragione, noi possiamo risalire da una causa seconda all’altra dell’universo ma più su, come per osservarLo dall’alto, non possiamo presumere di andare. Qualcuno mi dice: tu Mario non hai la fede. Per me, in effetti, quella di Dio è una questione di Ragione e non di altro. Tanti che dicono di aver fede nell’esistenza di Dio, poi, non potendosi fondare sulla Ragione, all’atto pratico non ci credono sul serio. E allora la questione rischia di diventare tutta una commedia. E a me, a questa età, le confesso, delle commedie non importa più niente».

© RIPRODUZIONE RISERVATA