
La Buona Domenica / Bergamo Città
Domenica 28 Settembre 2025
«Dsa è una sigla, ma non un’etichetta». Per uno sguardo che va oltre la diagnosi
LA STORIA. Cristina Moscatelli: «Da mio figlio Giovanni ho capito che il mio vero compito di genitore era credere in lui».
Le risorse umane, come scrive Ken Robinson, educatore e scrittore britannico «sono come le risorse naturali, giacciono in profondità, ecco perché bisogna andarle a cercare e soprattutto bisogna creare le condizioni affinché si manifestino». Ci vogliono pazienza e coraggio per farlo, come racconta Cristina Moscatelli di Treviglio, mamma di Giovanni, un ragazzo con disturbi specifici dell’apprendimento.
Oggi, come volontaria dell’Aid, Associazione italiana dislessia di Bergamo, si impegna in prima linea per smontare i pregiudizi sui «disturbi specifici dell’apprendimento» e creare un clima favorevole all’ascolto.
«Lo sguardo su mio figlio»
Cristina ricorda ancora con chiarezza i primi giorni di scuola di suo figlio. Le cartelle colorate, le matite nuove, i quaderni pieni di promesse. Ma per Giovanni quell’entusiasmo è durato poco. La matita, infatti, era un nemico ostinato: la teneva in mano, poi la lasciava cadere, come se bruciasse. Sul foglio tracciava segni incerti, mai un disegno compiuto. «Sembrava quasi che scrivere gli facesse male fisicamente — racconta Cristina — e io non riuscivo a capire il perché».
Le insegnanti usavano toni incoraggianti. «È questione di maturazione, serve tempo», ripetevano. Lei, però, nel silenzio della sera, guardava i compiti incompleti e sentiva crescere dentro di sé una voce più severa, soprattutto verso se stessa: «Forse non sto facendo abbastanza, forse sono io che sbaglio».
Era un pensiero che l’accompagnava spesso, nelle riunioni scolastiche e a casa. «Ogni giorno mi domandavo cosa non funzionasse, e ogni volta finivo col darmi la colpa», dice con sincerità.
La prima diagnosi è arrivata tardi, all’inizio della scuola secondaria, e non ha portato sollievo, prestando poca attenzione a chi era Giovanni davvero: «Noi genitori abbiamo avuto l’impressione che gli specialisti si siano concentrati solo sulle mancanze».
Dislessia, disortografia, discalculia
Sul documento finale c’erano parole pesanti, e Cristina ha avvertito subito il rischio che oscurassero il volto del bambino riducendolo a un’etichetta. «Ci hanno detto cosa non sapeva fare — ricorda Cristina — ma nessuno si è concentrato sulla personalità e le caratteristiche di Giovanni, sui suoi punti di forza».
Così è iniziato un percorso impegnativo, fatto di tentativi: pomeriggi infiniti a costruire mappe concettuali, schemi colorati, riassunti visivi. Cristina cercava applicazioni digitali che potessero aiutare, libri, qualsiasi strumento potesse aprire uno spiraglio. «Di fatto — ammette — a volte finivo per sostituirmi a lui, anche se sapevo che non era la strada giusta. Mi sembrava di togliergli la possibilità di diventare autonomo». La svolta è arrivata con una nuova certificazione, più attenta e rispettosa. Per la prima volta, qualcuno descriveva Giovanni non solo attraverso le difficoltà, ma riconoscendo anche le sue potenzialità. Quel nuovo sguardo ha restituito ossigeno alla famiglia.
«È stato come respirare dopo tanto tempo — racconta Cristina — come se finalmente qualcuno avesse visto nostro figlio per quello che è, al di là delle sue difficoltà».
Uscire dall’isolamento
Da lì è iniziato un cammino più sereno. Giovanni, che sempre ha avuto un atteggiamento positivo, tenace, sicuro delle sue potenzialità, sostenuto da strumenti adeguati, è riuscito a esprimerle pienamente. Si è iscritto al liceo delle Scienze umane, e poi ha chiesto di poter aderire al progetto di Intercultura e trascorrere un anno di studio all’estero. «All’inizio ero molto scettica – sottolinea Cristina – temevo che fosse troppo per lui. Poi, di fronte alla sua determinazione, mi sono convinta».
Restare per un anno in Belgio da solo, lontano da casa, con persone che parlavano un’altra lingua, è stato un grande banco di prova: «All’inizio ero terrorizzata — ammette la madre — ma era il suo sogno, perciò l’abbiamo sostenuto. Ed è stata la sua vittoria più grande. Ci ha dimostrato che poteva cavarsela benissimo, che la dislessia non era in alcun modo un freno, le paure e i timori erano nostri, non suoi». Accanto al percorso personale, Cristina grazie all’Associazione italiana dislessia di Bergamo ha scoperto anche la forza di una comunità.
«Farne parte ci ha aiutato a uscire dall’isolamento - dice -. Ho trovato famiglie che avevano vissuto le stesse ansie, gli stessi fallimenti, le stesse notti insonni. Non ero più sola».
La mostra interattiva
Da questo intreccio di esperienze personali e collettive, proprio per iniziativa di Cristina, è nata l’idea della mostra interattiva «Vorrei dirti», che dal 9 all’11 ottobre sarà ospitata al Centro civico di Loreto, in via Röntgen 3. Il titolo sembra quasi evocare un biglietto, un pensiero lasciato in un diario: «Vorrei dirti». Un’espressione che custodisce la delicatezza delle cose che spesso restano in sospeso. La mostra raccoglie quasi cento messaggi scritti a mano da ragazzi, genitori, insegnanti, educatori. Sono parole libere: a volte poche righe, a volte racconti più lunghi. Attraverso un QR code, quelle parole diventano anche voce: chi ascolta può sentire direttamente il timbro, l’emozione, il respiro di chi le ha pronunciate. Accanto a queste lettere ci sono i «Punti di vista»: dodici pannelli tematici, che affrontano alcune parole chiave come fatica, tempo, successo, ascolto, diritti, autonomia. Ogni pannello ospita lo sguardo di studenti, docenti, genitori: prospettive diverse, che rivelano la complessità dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento affrontandoli da una prospettiva spiazzante ed emozionante, mettendo in primo piano i ragazzi e i loro sentimenti.
Le testimonianze
C’è poi uno spazio creativo, con i lavori realizzati da bambini e adolescenti che hanno tradotto in immagini e colori la propria esperienza. E c’è un allestimento fotografico speciale curato da Giulia Papetti, giovane con Dsa, che sta per laurearsi in fotografia: le sue immagini diventano specchio e testimonianza di un percorso personale fatto di ostacoli e conquiste.
A rendere ancora più viva la mostra sarà la testimonianza di Giacomo Cutrera, ingegnere, presidente del comitato del lavoro dell’Aid. Presenterà un progetto innovativo nato dal suo libro «Demone Bianco» trasformato in cartoon grazie all’intelligenza artificiale: un linguaggio nuovo per raccontare la dislessia, capace di arrivare ai più giovani in modo diretto e coinvolgente. Per Gabriella Rota Stabelli, presidente della sezione Aid di Bergamo, questa mostra ha un significato preciso: «Non volevamo un evento formale, ma un’esperienza che parlasse al cuore delle persone. Spesso i ragazzi con Dsa non vengono ascoltati: questa volta sono loro a prendere la parola».
Un punto sottolineato anche da Rita Caffi, parte attiva del progetto: «L’ascolto è la vera chiave. Se accogli un ragazzo, una madre, una famiglia, un insegnante, capisci che i Dsa non sono mai solo una sigla. Sono storie diverse, fatte di paure, conquiste, sogni. Questa mostra restituisce dignità a quella pluralità di voci».
Cristina, a distanza di anni, sente di aver imparato molto dal figlio Giovanni: «Mi ha insegnato a guardare le cose da prospettive nuove. All’inizio pensavo di doverlo proteggere e fargli risparmiare fatiche e frustrazioni. Poi ho capito che il mio vero compito come genitore era un altro: credere in lui, fargli sentire che avevo piena fiducia nelle sue capacità».
Un cammino lungo
Anche per questo considera la mostra così importante: «Spesso i ragazzi con disturbi di apprendimento – osserva Cristina – oltre alle difficoltà personali devono affrontare molte incomprensioni da parte di compagni di scuola e insegnanti, che rendono il loro percorso ancora più accidentato. C’è ancora molto da fare per cambiare cultura e garantire l’applicazione corretta delle leggi, che offrono gli strumenti di compensazione e inclusione. A volte vengono considerati ancora come facilitazioni, anche se non lo sono, ma sono mezzi di equità e giustizia».
« So che può fare tutto ciò che desidera »
Anche per questo diventa così importante una mostra come «Vorrei dirti», frutto di un percorso fatto di incontri, dialoghi, approfondimenti, con la partecipazione di tante persone: «Ci piacerebbe che generasse una maggiore sensibilità e consapevolezza, a partire dall’uso attento delle parole». Questa mostra, negli intenti di Cristina, non vuole fermarsi a Bergamo: «Sarebbe bello portarla nelle scuole, nelle sezioni Aid della Lombardia, in tutti i luoghi che vorranno aprirsi a questo dialogo. Si accompagna bene ad attività di singoli e gruppi pensate per abbattere stereotipi e restituire uno sguardo più umano e rispettoso». Il messaggio, in fondo, è semplice e potente insieme: non ridurre mai un ragazzo a una diagnosi, non togliergli la possibilità di scoprire chi può diventare: «Col tempo ho imparato che non bisogna porre limiti a ciò che questi ragazzi vogliono e possono fare». Suo figlio Giovanni lo dimostra ogni giorno, con la sua determinazione, con i grandi risultati che ha ottenuto, con la possibilità di pensare al futuro con serenità, a partire dagli studi universitari: «So che può fare tutto ciò che desidera» sottolinea Cristina con un sorriso.
Le sue parole suonano come un invito rivolto a tutti i genitori che si trovano davanti a un disturbo di apprendimento dei loro figli, e a volte si sentono smarriti, come se dovessero scalare una montagna senza corde e ramponi: «Non abbiate paura. Non fermatevi di fronte alle difficoltà. Credete nei vostri figli, perché loro hanno molte risorse e possono dare molto di più di quanto immaginiamo».
Ed è proprio questo che Cristina, Rita, Gabriella e gli altri genitori dell’Associazione Aid si augurano di consegnare a chi visiterà la mostra: la certezza che dietro ogni fatica ci sono un volto e una voce che meritano di essere considerati e ascoltati. Dietro ogni «etichetta» c’è una storia da scoprire e conoscere, e nessun percorso è mai davvero segnato in anticipo: «Ci vuole fiducia – conclude Cristina – e la capacità di mantenere lo sguardo e il cuore aperti».
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