Genitori a tempo, ma con amore eterno: «L’affido è un ponte verso il futuro»

LA STORIA. La bellissima esperienza di Sabrina e Vittorino, due coniugi che a 60 anni hanno deciso di rimettersi in gioco.

«I figli – scrive Madre Teresa di Calcutta – sono come gli aquiloni: gli insegnerai a volare, ma non voleranno il tuo volo. Gli insegnerai a sognare, ma non sogneranno il tuo sogno. Ma in ogni volo, in ogni sogno rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto».
Segue il filo di queste parole la storia di Sabrina e Vittorino e della loro «famiglia allargata» che oggi è composta da figli naturali e affidatari.

Rimettersi in gioco

A sessant’anni, con due figlie ormai grandi, a un certo punto hanno avuto la sensazione che nella loro casa ci fossero spazio e tempo da donare. Le stanze erano ancora piene di colori e di ricordi, con tante foto alle pareti, ma i passi quotidiani erano più silenziosi e leggeri.
Proprio dentro quei silenzi, hanno percepito il battito di una chiamata inattesa, che sapeva di primavera. L’idea, all’inizio un po’ spiazzante, è arrivata dalle loro figlie Benedetta e Marika, dopo aver conosciuto l’esperienza di una coppia di amici di famiglia, impegnati nell’affido. Hanno lasciato cadere in modo lieve una domanda: «Perché non lo fate anche voi? In fondo avete tempo, amore e spazio».

Non eravamo certi di essere ancora capaci di occuparci di un bambino piccolo

Quel seme, gettato con semplicità, ha cominciato a germogliare.
Ci hanno pensato a lungo, all’inizio erano titubanti. «Siamo troppo vecchi», pensavano. Ma un’assistente sociale li ha incoraggiati: «Ci ha detto - spiega Sabrina - che per le famiglie affidatarie il cuore conta più dell’età anagrafica. I bambini in difficoltà hanno bisogno prima di tutto di essere amati». E così, quando hanno deciso di dire sì, è stato come aprire il cancello di un giardino segreto fatto di emozioni e lasciare che la vita tornasse a fiorire.


La prima esperienza

Il primo a varcare quella soglia è stato un neonato di cinque mesi, che chiameremo Willie, nato prematuro, piccolo, fragile, con occhi che chiedevano protezione. Entrando in quella casa, ha riportato Sabrina e Vittorino indietro di vent’anni, riempiendo l’aria di pianti, ninnenanne cantate sottovoce, silenzi pieni di attesa. La loro vita è stata rivoluzionata: biberon, pannolini, carrozzine, notti spezzate. «All’inizio eravamo timorosi – ricorda Sabrina –. Non eravamo certi di essere ancora capaci di occuparci di un bambino piccolo. È stata dura, abbiamo dovuto cercare nuovi equilibri e rimetterci in discussione. Ma bastava un suo sorriso per spazzare via qualunque segno di stanchezza e malumore».


Lo hanno accompagnato nelle sedute di fisioterapia e nelle visite della neuropsichiatria, incoraggiato nei primi movimenti, gioito per ogni sua conquista

Con lui hanno ricominciato a vivere il ritmo dei neonati, che ormai avevano dimenticato: il respiro lento del sonno, le mani piccole che afferrano un dito come fosse l’intero universo. Willie prima di arrivare nella loro casa aveva già attraversato tempeste troppo grandi per la sua età: problemi di salute, fragilità familiari, bisogni urgenti. Sabrina e Vittorino gli hanno offerto braccia salde, abbracci, coccole e una porta aperta su un futuro migliore. Lo hanno accompagnato nelle sedute di fisioterapia e nelle visite della neuropsichiatria, incoraggiato nei primi movimenti, gioito per ogni sua conquista. Lo hanno seguito con trepidazione quando ha imparato a gattonare, mosso i primi passi e pronunciato la prima parola.


Il saluto

«Questa esperienza mi ha fatto ringiovanire», confessa Sabrina. E in effetti, con Willie, anche lei e il marito hanno trovato nuove motivazioni, hanno accettato sfide inaspettate, pronti a cambiare e crescere. Non erano più semplici genitori, ma artigiani di futuro, custodi di possibilità.
Quando, dopo una manciata di mesi, è arrivato il momento di salutare Willie, per lasciargli la possibilità di raggiungere una nuova famiglia e l’adozione definitiva, la casa sembrava di nuovo vuota, intrisa di una tristezza agrodolce. Le stanze di colpo più grandi e tranquille, senza passeggini e giocattoli, il silenzio più profondo.


Il distacco

«A un certo punto – dice Sabrina – siamo arrivati a pensare che avremmo potuto perfino adottarlo noi, perché ci siamo affezionati molto a lui. Ma sapevamo che non era mai stato “nostro”. Era destinato a un’altra casa, a un’altra famiglia». Il dolore del distacco è stato come un vento d’inverno, freddo fino in fondo all’anima, ma con la consolazione di averlo accompagnato fino a un approdo sicuro. Ancora oggi seguono la sua crescita, come si osserva da lontano una rondine che continua il suo volo.


Una nuova chiamata

Intanto era arrivata una nuova chiamata. Questa volta un bambino di sette anni, che chiameremo Daniele. Non un neonato da cullare, ma una creatura già piena di ricordi, ferite e nostalgie. Quando ha varcato la soglia, portava negli occhi la malinconia di chi è costretto a lasciare la sua casa e i suoi punti di riferimento. «All’inizio piangeva tutto il giorno – racconta Sabrina –. Non si fidava, cercava solo la sua famiglia».
Con lui non bastavano le coccole: servivano calma, tolleranza, parole chiare e condivise, gesti piccoli e costanti, «essere presenti», come sottolinea Sabrina. Vittorino è stato il suo primo appiglio, una roccia calma e sicura. Poi, pian piano, anche lei ha trovato la strada, attraverso azioni concrete: aiutarlo nei compiti, accompagnarlo nelle abitudini quotidiane, insegnargli che non era solo.

«Ha imparato ad allacciarsi le scarpe, a ricordare le tabelline, ma anche a chiedere scusa quando sbaglia e a mostrare gratitudine»

«Quando un giorno ci ha detto che ci voleva bene – ricorda Sabrina – ho sentito che una barriera invisibile era caduta. Un momento di gioia incredibile».
Daniele, lentamente, ha cominciato a rifiorire. Messi da parte i videogiochi, che erano il suo unico rifugio, come uno scudo per allontanarsi dalle difficoltà, è passato a scoprire il mondo: le corse a calcio, il nuoto, la bicicletta, il Centro ricreativo estivo all’oratorio. Ogni nuova esperienza era come aprire una finestra, lasciando entrare aria e luce.


Il sostegno della comunità

«Avete bisogno di una comunità intera – di tutti – per allevare un figlio», scrive Toni Morrison. E attorno a Daniele la comunità si è davvero stretta: la scuola, l’oratorio, il paese, tutti hanno contribuito a farlo sentire accolto, circondandolo di gentilezza e discrezione.
Le conquiste non si sono espresse soltanto nei giochi o nello sport, manifestandosi in obiettivi di crescita a più livelli, pratici ma anche più astratti e intangibili: «Ha imparato ad allacciarsi le scarpe - racconta Vittorino -, a ricordare le tabelline, ma anche a chiedere scusa quando sbaglia e a mostrare gratitudine. La speranza dei genitori è che i figli diventino brave persone. Noi ci proviamo, passo dopo passo».


Non mancano ostacoli

Non è un cammino privo di ostacoli. Non è stato facile intrecciare e mantenere un rapporto con la famiglia d’origine, che continua a essere presente nella vita di Daniele, con alcune differenze di visioni educative, le visite periodiche, a volte qualche nervosismo e tensione. Ma Sabrina e Vittorino hanno scelto di ascoltare, comprendere e non giudicare. «Non siamo sostituti – dicono – siamo compagni di viaggio. Offriamo normalità, senza togliere radici e legami. Questo percorso può funzionare solo in un clima di ascolto, rispetto e fiducia reciproca».


Le «sorelle affidatarie»

Anche le loro figlie, intanto, hanno imparato cosa significa condividere l’amore. A distanza, spesso lontane da casa, perché impegnate negli studi e nelle loro vite nuove, restano comunque parte di questa avventura: «Sorelle affidatarie», come le chiama Daniele, pronte a iniziare un gioco, inventare fiabe, abbracciare un’avventura. Ogni volta che tornano a casa, ritrovano il calore di una famiglia «aperta» che diventa un dono per ogni suo componente.
Essere genitori «a tempo» non è semplice. È un esercizio costante di generosità e di distacco: tenere tra le braccia e poi lasciare andare.

«Bisogna ricordarsi, però, che non sono nostri e che prima o poi se ne andranno. È doloroso, ma è giusto così»

Ma proprio lì, nel cuore di questo delicato equilibrio, come spiega Sabrina, risiede la bellezza di questa esperienza. Anche lei lo ha scoperto strada facendo: «Quando apri la tua casa a un bambino, devi donare soprattutto amore e pazienza. Io li tratto come figli miei. Li abbraccio, li conforto, li sostengo e li premio ma poi, quando serve, li sgrido e li metto in castigo. Bisogna ricordarsi, però, che non sono nostri e che prima o poi se ne andranno. È doloroso, ma è giusto così».


Genitori «a tempo»

E forse è proprio questo il mistero dell’affido: essere genitori «a tempo», ma con amore eterno. Offrire normalità a chi non ce l’ha, stringere mani fragili senza pretendere di possederle, accompagnare senza trattenere. «Non è facile – ammette Vittorino – ma quando i bambini cercano il nostro affetto e scoprono qualcosa di nuovo, sappiamo che stiamo facendo un buon lavoro. Finché restano con noi, diamo loro tutto il nostro cuore».


Energie nuove

Così, tra pianti e sorrisi, addii e nuovi inizi, Sabrina e Vittorino hanno riscoperto che la vita può sorprendere anche a sessant’anni: «Abbiamo trovato in noi energie e risorse che non ci aspettavamo di avere». La loro casa è tornata a essere vivace e rumorosa. Non un rifugio chiuso su se stesso, come a volte accade, soprattutto con l’avanzare dell’età, piuttosto un luogo che si apre e si richiude, come le mani che accolgono e poi lasciano andare, come una melodia iniziata da uno strumento musicale e conclusa da un altro.

«Ponte verso il futuro»

Ogni bambino accolto rappresenta una possibilità inattesa, un presente che si dischiude, uno slancio verso il futuro, così prezioso in un momento in cui la vita sembra pronta a ripiegarsi su se stessa.
«Possiamo solo augurarci - osserva Sabrina - che il futuro di questi bambini sia più luminoso del loro passato, e mettercela tutta, per quanto è in nostro potere, perché sia davvero così». Se un giorno un vento nuovo li porterà via, resteranno sempre un filo e una casa, un affetto a cui tornare se lo vorranno e ne avranno bisogno.
Tra le righe dell’esperienza dell’affido di Sabrina e Vittorino si percepisce in modo forte la volontà di mettersi a servizio e rimanere aperti al futuro. E in fondo, come aquiloni nel vento, anche i bambini che hanno accolto porteranno sempre con sé un frammento della loro cura e tenerezza. In una storia d’amore senza fine, che mostra la bellezza, come dice Vittorino, di essere «ponte che conduce verso il futuro».

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