«Il tablet ha ridato vita a mio figlio, adesso sorride e non è più solo»

La Buona Domenica Il bambino di 7 anni, con autismo grave non riusciva a comunicare. Ha trovato una strada con le terapie e nuove tecnologie.

«Ciao Ibrahim». La mamma sorride, ma lo sguardo del bambino è assente, rivolto altrove, su una zona indefinita della stanza. Chissà se sta osservando una farfalla, una coccinella, oppure un mondo per gli altri invisibile. Ha solo sette anni, e non usiamo il suo nome vero per evitargli un doppio pregiudizio: perché è autistico (con misura B1, quella destinata a persone con disabilità gravissima) e figlio di immigrati. La sua famiglia, infatti, viene dal Senegal, e si è stabilita a Bergamo nel 2010. Lui è nato qui. «Ho tre figli - racconta la madre, che chiameremo Jaineba -. La maggiore è una femmina di 16 anni, poi c’è un maschio di 12, Ibrahim è il più piccolo».

La mamma ha avvertito che qualcosa non andava quando Ibrahim era piccolo

Jaineba e i due figli maggiori sono partiti per ricongiungersi con il papà Diop, che lavorava già da qualche anno in Italia come operaio. «Non è stato facile all’inizio - sottolinea Jaineba -. Ho dovuto ambientarmi e rimettermi a studiare per imparare l’italiano. Mi sono impegnata molto per riuscirci velocemente. L’ho fatto soprattutto per aiutare i miei figli e poterli accompagnare nel percorso scolastico».

Parla di Ibrahim con una tenerezza particolare, come di un tesoro da proteggere, ancora più prezioso, perché così fragile. Il suo tormento più grande è non riuscire a comprendere le sue inquietudini e i suoi desideri, non poter risolvere i suoi piccoli e grandi dolori di bambino, non trovare risposte immediate e semplici alle sue paure come accade con gli altri figli. «Tutto il problema della vita è questo - scrive Cesare Pavese -: Come rompere la propria solitudine, come comunicare». Capita nei rapporti con gli altri - anche con le persone che ci sono più care - di non riuscire a trovare le parole o di dire quelle sbagliate. Accade che si ingarbuglino nell’anima come in un telefono senza fili e arrivino a destinazione distorte e trasformate.

Con un bambino autistico come Ibrahim, però, è mille volte più difficile, è come se ogni tentativo di avvicinarlo finisse in un buco nero, che assorbe tutta l’energia di chi sta intorno. Mentre chiacchieriamo con la mamma nel salotto, e ascoltiamo in sottofondo le canzoni di una trasmissione tv senegalese, lui gira per la stanza, e accompagna le nostre parole, talvolta, con suoni brevi e acuti, che esprimono forse curiosità per la nostra presenza inattesa.

«Le madri non sbagliano mai» come scrive lo psichiatra Giovanni Bollea, e così Jaineba ha avvertito che c’era qualcosa di diverso in Ibrahim quando era ancora molto piccolo. Nato con un difetto benigno, la laringomalacia, causato da una scarsa rigidità del tessuto della laringe, che provoca fatica nella deglutizione e nel respiro, nei primi anni ha avuto a che fare spesso con gli ospedali, sviluppando ansia e paura dei medici. «Questo problema si è risolto completamente, ma ho notato che invece quel timore smodato degli estranei - soprattutto in camice bianco - non passava. Non sapevamo ancora dell’autismo quando ha avuto bisogno di ricoveri. Nessuno ha potuto usare gli adattamenti che occorrevano per lui».

Jaineba si è allarmata quando ha visto che a due anni Ibrahim ancora non diceva neppure una parola: «La pediatra - racconta - diceva che era normale, che avrebbe iniziato a parlare con i suoi tempi, e che avremmo dovuto attendere l’inserimento all’asilo per capire meglio. Io però non ero convinta, sentivo di non riuscire a instaurare una connessione con lui. Mi sembrava sempre assente, come se fosse in un altro mondo». Quando Ibrahim ha iniziato a frequentare la scuola dell’infanzia sono state le stesse insegnanti a consigliarle di rivolgersi alla neuropsichiatria di Trescore Balneario: «Da un certo punto di vista ero sollevata che qualcuno finalmente si facesse carico delle mie preoccupazioni. D’altra parte, però, mio marito e io eravamo sopraffatti da questa situazione».

Ci sono voluti sei mesi per arrivare a una diagnosi, e in questo periodo Ibrahim non poteva contare su alcuna assistenza, pur avendone un grande bisogno: «Ho provato un profondo senso di impotenza e di solitudine - spiega Jaineba -. Portavo mio figlio alla scuola dell’infanzia alle 9 e dovevo andare a riprenderlo alle 11 perché era impossibile gestirlo, non riuscivano a tenerlo per più tempo». Dopo la diagnosi sono iniziate le terapie: «Andavamo a Trescore due volte alla settimana».

«Da quando usa il tablet Ibrahim ha imparato a dire i nomi dei suoi fratelli»

All’inizio è stata dura: «Non sapevamo cosa fosse l’autismo, quando è arrivata la diagnosi abbiamo cercato notizie su internet, perché avremmo voluto capire meglio e di più». Jaineba è sempre rimasta accanto a suo figlio cercando di impegnarsi al massimo per lui, senza mai lasciarsi vincere dallo sconforto e dalla solitudine. «Grazie alle terapiste - spiega - abbiamo scoperto la Comunicazione aumentativa alternativa». Un insieme, cioè, di conoscenze, tecniche, strategie e tecnologie che possono semplificare ed incrementare la comunicazione nelle persone che hanno difficoltà a usare i più comuni canali comunicativi. Jaineba ha iniziato ritagliando figurine e plastificandole per costruire a Ibrahim una specie di abbecedario, facendo esercizi infiniti per aiutarlo ad associare simboli e suoni. È un quaderno ad anelli che pian piano si è arricchito, ed è diventato indispensabile: Jaineba gli ha legato una cinghia in modo che Ibrahim potesse portarlo a tracolla e averlo sempre a disposizione. Lui indica col dito e questo è il suo modo di comunicare.

«Ci disperavamo perché Ibrahim aveva gravi crisi di nervi ogni volta che si sentiva poco bene o voleva mangiare e bere e noi non capivamo. Gridava, ci graffiava. In quei momenti provavo un dolore profondo». Pian piano, grazie alle terapie e alla comunicazione aumentativa la situazione è migliorata: «Ha iniziato a guardare le persone quando parlano con lui».

La vera svolta, però, è arrivata quando, sempre grazie alle terapiste di Trescore, ha iniziato a usare un tablet con il software «Let me talk», che ha reso ancora più semplice la comunicazione, e poi, quando ha iniziato la scuola primaria, il DPad, dispositivo realizzato da Dialog Ausili di Sapio Life, studiato in modo specifico per persone con autismo e con Sla. Avvolto in un guscio colorato di gomma per resistere agli urti, questo dispositivo presenta finestre di dialogo molto semplici, in cui all’immagine si associa sempre una voce che pronuncia la parola corrispondente. Le icone, molto schematiche ed essenziali, possono essere personalizzate in base alle esigenze del singolo utente in modo da offrire strumenti adeguate per compiere con semplicità alcune azioni quotidiane, a partire dal gioco e dagli esercizi scolastici.

L’interfaccia del DPad propone i giochi e le azioni più semplici, come lavarsi, giocare ma anche fare il solletico e ricevere un abbraccio

«Da quando usa questo dispositivo Ibrahim ha imparato perfino a pronunciare alcune parole - sorride Jaineba - come mamma, papà e i nomi dei suoi fratelli. Quando l’ha fatto per la prima volta ci siamo emozionati. All’inizio ci sembrava incredibile. Ora riesce a comunicarci attraverso il suo tablet, indicando le icone giuste, se ha fame o sete, se vuole uscire oppure giocare». Questo supporto tecnologico è stato fondamentale durante la pandemia: «Nel primo lockdown ci siamo ritrovati a casa da soli - osserva Jaineba - ci sentivamo abbandonati a noi stessi. Ci mandavano via email qualche esercizio da fare».

Jaineba ha preparato da sola tutti i supporti che servivano a suo figlio: «È stato un periodo duro ma ho visto che ce la facevo, quindi col tempo ho guadagnato coraggio e fiducia. Per quasi due anni non abbiamo più potuto fare terapie in presenza. Solo di recente siamo riusciti a organizzare una riunione con la dottoressa che segue Ibrahim e le sue insegnanti, in occasione del rinnovo della certificazione per il suo piano didattico personalizzato».

L’interfaccia del DPad propone i giochi e le azioni più semplici, come lavarsi, giocare ma anche fare il solletico e ricevere un abbraccio. «Imparare questo tipo di comunicazione - sottolinea Jaineba - richiede tempo e pazienza. All’inizio non sapevo come dare le giuste indicazioni a Ibrahim, ma è un sistema intuitivo e gradualmente ha iniziato a usarlo con maggiore disinvoltura». Si sono aperte molte possibilità, come quella di conoscere i nomi dei colori e degli animali, imparare giochi ed esercizi e innescare piccoli processi di autonomia nella cura personale, per esempio lavarsi o vestirsi.

Prima stava sempre da solo e gli altri bambini si tenevano lontani da lui, scoraggiati dall’impossibilità di stabilire un contatto, ma la nuova opportunità di comunicazione offerta dal tablet ha cambiato le cose anche da questo - delicatissimo - punto di vista: «Ha iniziato a giocare con altri bambini - dice Janeiba -. I suoi compagni possono aiutarlo, e interpretare i suoi desideri e le sue parole attraverso il tablet, è interessante anche per loro. Fortunatamente a scuola ha incontrato insegnanti molto bravi e motivati, che hanno imparato a conoscerlo e lo sanno aiutare nel modo giusto, valorizzando le sue capacità».

Jaineba ci mostra la valigia dei tesori, in cui conserva tutti i lavori eseguiti, i giochi e gli ausili che ha costruito per il figlio, alcuni esercizi che hanno anche un valore affettivo, come costruire l’albero genealogico della famiglia. Ibrahim intanto ascolta la musica africana alla tv: «Ho cercato di mantenere vivo nei miei figli il legame con la cultura e le tradizioni del Senegal - chiarisce Jaineba -. A casa, fra noi, parliamo ancora il dialetto del nostro Paese. Mi sembra prezioso mantenere le nostre radici».

Nei legami, negli affetti, nella cura e nell’impegno quotidiano germoglia il seme della speranza, oltre l’autismo: «Ci fa piacere parlarne, perché sappiamo cosa vuol dire la solitudine per le famiglie, quanto è importante creare maggiore sensibilità per una condizione ancora poco conosciuta e spesso mal giudicata. Sarebbe bello poter creare un mondo migliore, un futuro più sereno per i bambini come Ibrahim».

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