Dna vale come prova in un processo
Rapina e omicidio, già 2 sentenze

Una quasi banale rapina a un furgone portavalori e un omicidio cruento, quello di un uomo che ha sgozzato l’amante della moglie: sono questi i due casi che hanno fatto giurisprudenza sulla validità nel processo degli accertamenti sul Dna.

Una quasi banale rapina a un furgone portavalori e un omicidio cruento, quello di un uomo che ha sgozzato l’amante della moglie: sono questi i due casi che hanno fatto giurisprudenza sulla validità nel processo degli accertamenti sul Dna.

Proprio queste due sentenze della Cassazione, infatti, vengono citate nell’ordinanza con cui il gip di Bergamo ha disposto la custodia cautelare in carcere per Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassino di Yara Gambirasio, per dimostrare che «gli esiti dell’indagine genetica» hanno «natura di prova» e non «di mero elemento indiziario».

Il giudice Vincenza Maccora, infatti, dopo aver sottolineato che «sussistono gravi indizi per ritenere» che il muratore di Mapello «è il soggetto che ha lasciato la traccia di sangue’ sugli indumenti della ragazzina», mette «nero su bianco» che sulla base dell’orientamento «prevalente in giurisprudenza quelle analisi sul Dna hanno valore di «prova» E per farlo richiama un principio stabilito da quelle due sentenze della Suprema Corte: gli esiti di una «indagine genetica» dato l’’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario»

E peraltro quando «l’indagine genetica» non dà «risultati assolutamente certi» e questo, secondo il gip, non è il caso di Bossetti, «ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria». Alla base dell’indirizzo della Cassazione, che il gip sposa in pieno, ci sono, in particolare, una pronuncia di quasi dieci anni fa e un’altra dello scorso anno.

Nel 2004, infatti, gli Ermellini hanno confermato la condanna a 14 anni e 6 mesi di carcere per un uomo accusato di aver ucciso l’amante della moglie a Valdobbiadene (Treviso) colpendolo alle spalle con una roncola e poi sgozzandolo. Gli investigatori avevano trovato su uno zerbino un «mix di sangue» con il profilo genetico della vittima e dell’omicida e la Cassazione, come si legge nelle motivazioni, ha riconosciuto la «natura di prova delle risultanze delle indagini genetiche sul Dna, allo stesso modo in cui in tempi ormai non più recenti, venne riconosciuto il valore probatorio delle impronte digitali, valore che in entrambi i casi si fonda su ricorrenze statistiche così alte, da rendere infinitesimale la possibilità di un errore» Il 5 febbraio del 2013, poi, la Suprema Corte, confermando la condanna della Corte d’Appello di Bologna nei confronti di un rapinatore che aveva assaltato un portavalori, ha ribadito la valenza probatoria dell’esame sul Dna che in quel caso fu rintracciato sull’auto usata per commettere la rapina.

Tra l’altro, un richiamo a quest’ultima sentenza si ritrova anche in un verdetto della Cassazione del 9 ottobre scorso che confermò la condanna per un ladro emessa dalla Corte d’Appello di Firenze. Una pronuncia in cui viene fissato anche un altro principio che rafforza le indagini che hanno portato in carcere Bossetti. A quel ladro, infatti, il dna venne prelevato raccogliendo, a sua insaputa, i mozziconi di sigarette che aveva fumato quando era sotto interrogatorio in caserma.

Anche il carpentiere di Mapello non sapeva che gli investigatori erano a caccia del suo profilo genetico, quando lo hanno sottoposto a un finto etilometro qualche giorno fa. Il «prelievo del Dna» però, scrive la Cassazione, non è un «atto invasivo o costrittivo» e dunque «non richiede l’osservanza delle garanzie difensive» Infine, va ricordato che a carico di Bossetti oltre al «forte elemento probatorio» del suo Dna trovato sui vestiti di Yara «si aggiungono» scrive il gip, anche «ulteriori utili indizi» come le analisi sulle celle telefoniche, che «rafforzano, se valutati globalmente, il quadro indiziario».

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