Il ricordo di Lucio Parenzan
«Io, bambino blu, oggi scio»

Francesco conserva ancora una foto di quando era un «bimbo blu»: incorniciata, la guarda nel salotto di casa con la mamma Maria Luisa. Oggi Francesco Ferracini Mazzoleni, 36 anni, può andare a sciare, giocare a calcio. Grazie a Parenzan.

Francesco conserva ancora una foto di quando era un «bimbo blu»: incorniciata, la guarda nel salotto di casa con la mamma Maria Luisa. «La mia infanzia? ricordo che non potevo fare nulla, persino lo zaino per andare a scuola mi era vietato. Se lo caricava mia madre al posto mio: per me era troppo pesante, il mio cuore malato non avrebbe retto». Oggi Francesco Ferracini Mazzoleni, 36 anni, può invece andare a sciare, giocare a calcio, percorrere lunghe distanze in bicicletta.

«Se vivo lo devo a lui, a quel dottore dagli occhi azzurri. Li vedo davanti a me come se fossi ancora bambino: Lucio Parenzan mi ha fatto nascere una seconda volta, e con il cuore rimesso a posto. Del primo intervento che mi fece, lui, con la sua équipe, io non ricordo nulla: avevo appena 10 mesi, mia madre mi ha raccontato che era un intervento-tampone, per farmi crescere un po’ e poi fare l’operazione decisiva, molto più pesante. Il secondo, quello per correggere in modo definitivo la mia grave malattia, la tetralogia di Fallot, quella che mi faceva diventare blu, Parenzan me l’ha fatto quando io avevo 7 anni: era il 1984, mi ricordo quando entrò nella mia stanza e mi parlò da uomo a uomo.

“È una cosa molto complicata, ma tu devi affrontarla”, mi disse. Non avevo paura, con lui mi sentivo tranquillo. Sapere che non c’è più oggi mi addolora profondamente: era un uomo buono, oltre che un grandissimo medico. Io sono onorato di essere stato salvato dalle sue mani. Mia madre dice che è stata una benedizione divina incontrarlo».

Maria Luisa Brumana, 65 anni, casalinga, mamma di Francesco - che oggi è disoccupato («Sono in mobilità , prima lavoravo alla ex Philco) e vive a Costa Imagna con lei e il papà Giuseppe, 70 anni, operaio edile in pensione –si commuove ancora oggi, quando pensa a quei giorni lontani, con un figlio malato di cuore e la sua vita appesa a un filo. «Io quelle mani di Parenzan vorrei baciarle: senza quello che lui è stato capace di fare il mio Francesco non sarebbe qui. Non poteva vivere». Maria Luisa ricorda tutto, come fosse ieri: «Sin da subito dopo il parto avevo capito che qualcosa non andava: Francesco era nato sottopeso e non me lo fecero portare a casa, doveva crescere, mi avevano spiegato. Ma le infermiere, all’ospedale di Bergamo, che allora si chiamava Ospedale Maggiore, avevano anche notato che quando si attaccava al biberon, dopo aver poppato a Francesco venivano le labbra viola. Inizialmente avevano parlato, i medici, di un soffio al cuore, dicevano che non era niente di grave, che crescendo tutto si sarebbe sistemato. Ma quando siamo tornati a casa per Francesco le cose andavano sempre peggio: aveva crisi respiratorie, diventava tutto blu. In paese ci spiegarono che bisognava farlo vedere a un medico bravo, e ci consigliarono Giuseppe Locatelli, che è proprio di qui, della nostra valle».

Giuseppe Locatelli era all’epoca uno dei grandi, grandissimi collaboratori di Lucio Parenzan, di lui il cardiochirurgo diceva che «era il più bravo, lui sa fare veramente tutto»: approdò alla cardiochirurgia molto presto, proprio quando Parenzan aveva cominciato a fare i primi interventi al cuore con i bambini, poi punta di diamante della chirurgia pediatrica e quindi si specializzò nei trapianti (premiato dai Riuniti con il Bisturi d’oro quando andò in pensione).

«Fu lui a spiegarci che il bambino andava visto da Parenzan e che soltanto lui avrebbe potuto operarlo – continua ancora Maria Luisa – . Il professore lo visitò, e fu tanto affettuoso con noi: si informò sulla nostra situazione familiare, ci chiese dove abitavamo, che lavoro faceva mio marito. Eravamo e siamo gente semplice, noi, ma lui ci ha sempre trattato come fossimo dei gran signori. E non ci ha mai chiesto un soldo. Ci spiegò cos’aveva Francesco, era schietto, chiaro, non fece tanti giri di parole: se non si faceva quell’operazione il mio bimbo sarebbe morto. Il primo intervento, lo definirono tecnicamente “palliativo”, lo fecero quando Francesco aveva 10 mesi. Era urgente, io non credevo alle mie orecchie quando mi spiegarono che comunque non era ancora la prova più dura che Francesco avrebbe dovuto affrontare. Mio marito e io dicemmo subito: fate quello che dovete, vogliamo nostro figlio in salute».

Poi, a 7 anni, Francesco tornò di nuovo in sala operatoria: un intervento pesantissimo, durò tante ore, «e lui restò anche in circolazione extracorporea. Ma fu coraggioso Francesco – dice la mamma – . Io credo che abbia affrontato senza mai lamentarsi la malattia e le difficoltà dell’intervento soprattutto perché Parenzan lo trattava come fosse un uomo. E noi, da quel cardiochirurgo così schietto ma anche così affettuoso, ci sentivamo rassicurati. Andò tutto bene, e ora Francesco è qui con me: fa i controlli, le sue visite periodiche, ma vive come tutti gli altri. È come se Parenzan gli avesse dato un cuore nuovo: lo ricorderò sempre, il cardiochirurgo, ogni giorno, nelle mie preghiere. Vorrei dirlo personalmente anche ai familiari, ma fatelo voi per me: dite che oltre alle tante, tantissime preghiere che Parenzan riceverà, ora che è volato in cielo, ci sono anche le mie. Quelle di una semplice mamma come tante, che grazie a lui ha potuto avere suo figlio, sano, accanto a sé».
Ca. T.

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