Tancredi Bianchi, lezione su Ubi
«Abbia la testa nel mondo»

L'ex presidente dell'Abi inquadra l'assemblea in programma sabato 20 aprile nello scenario di una economia cambiata in modo radicale. «Questo dato di partenza non è emerso dal dibattito. Sabato mi aspetto cortesia e buon senso da tutti».

«Quando sono nato, mio nonno mi ha fatto diventare socio della Popolare di Bergamo. Mio padre era socio, i miei figli lo sono diventati e anche i miei nipoti. I miei bisnipoti invece non hanno fatto a tempo: uno lo è diventato di Bpu e uno di Ubi».

Parte dalle vicende personali l'intervista lezione con il professor Tancredi Bianchi, economista, già docente alla Bocconi ed ex presidente dell'Abi, sull'assemblea Ubi. A 85 anni, passa da Seneca a Obama per tratteggiare il mondo. Cita il Padre nostro, «non c'indurre in tentazione», per mettere in guardia dalle «corbellerie americane» sui bonus ai manager: «I nostri vecchi mettevano a Statuto che si distribuiva il 4-5% dell'utile».

Parla con garbo di tutto e di tutti, «Resti nelle risposte non è mai male», con lucido disincanto e onestà intellettuale, senza nascondere che qualche limite, ad esempio nel funzionamento del sistema duale, c'è stato. Elogia la politica diesel dei piccoli passi e della tenacia, per il passato e ancor di più per il futuro.

E nonostante la passione che gli attraversa gli occhi, non ha ancora deciso se sabato ci sarà all'appuntamento in Fiera: «Ma se vado, voterò per la prima lista di Moltrasio». E la spiegazione parte da lontano. Parlare di entusiasmi e di sofferenze nel percorso che dalla Popolare ha portato a Bpu e poi a Ubi appare riduttivo di fronte allo scenario che il professore delinea. «Per deformazione professionale - inizia a raccontare, con il codice civile a portata di mano, appoggiato sul tavolino - valuto il percorso fatto dalla banca come un professore che giustifica la difficoltà dello scolaro a svolgere il compito».

Lo scolaro ha immaginato, come tutti siamo portati a fare, un progetto per costruire un futuro migliore. Ma come sempre accade nella storia umana, di mezzo ci si mettono gli imprevisti. «All'inizio del millennio tutti abbiamo pensato che globale avrebbe voluto dire avere un mercato molto più ampio. Però non immaginavamo che Cina, India, Sudest asiatico, India, Brasile e Messico sarebbero cresciuti così velocemente. Il cambiamento dell'ambiente esterno unito alla crisi economica impone di rivedere molte strategie precedenti».

Come ha influito questo sulla banca?
«La banca è un intermediario che non può essere meglio dei suoi clienti. L'idea era: noi esportiamo in India, Cina, Thailandia... Quindi la clientela della banca avrebbe prodotto di più. Ma oggi la situazione si è capovolta. Va bene chi esporta, ma non pensavamo che tutti dovessero andare in quella direzione. E non è che Zanetti e chi ha guidato la banca non sappia queste cose. Abbiamo commesso tutti gli stessi errori. Il problema è che adesso senza fretta ma con lunga lena bisogna pensare di riorganizzare. L'impresa, anche bancaria, poggia su quattro ruote che devono restare in armonia: capitale, risorse umane, organizzazione e adattamento all'ambiente esterno. Quest'ultima è andata fuori asse e influisce sulle altre tre. Da qui vengono le delusioni. Ma ci vuole un tempo enorme: occorre portare 20 mila dipendenti tutti a parlare inglese, tutti a pensare come aiutare le imprese all'estero. E in questo è indietro tutta l'Europa. Servono persone che hanno cultura, testa e tempo per capire il mondo».

Uno dei temi più dibattuti è stata la forma societaria. Qual è il valore della cooperativa?
«Ha alcuni grandi vantaggi. Per esempio, nessun socio deve vedere nella sua partecipazione la sua ricchezza. Nessuno può comandare: tutti hanno un voto. Non si può essere soggetti a scalate. Questo gruppo non può essere comprato dai cinesi. È un modello difensivo. Ci sono anche dei difetti. Quando si raggiungono certe dimensioni, su 100 mila soci, 97 mila magari non si interessano e c'è il rischio di diventare autoreferenziali».

Questa volta c'è più partecipazione del solito: come giudica il confronto di queste settimane?
«Il dibattito non dovrebbe essere fra avversari perché tutti dovrebbero avere gli stessi interessi. Non mi pare sia emersa la considerazione fatta all'inizio: è cambiato lo scenario per tutti e tutti hanno sbagliato, non noi qui a Bergamo. Se Lula non fosse andato alla guida del Brasile, quel Paese sarebbe ancora indietro. La fortuna degli Stati Uniti è che hanno importato cervelli da tutto il mondo. Ecco perché se sabato andrò, voterò per la prima lista, posto che tutte sono legittime: perché hanno la testa per capire il mondo. Ci sono anche miei allievi, come Mario Comana e Marina Brogi, che hanno superato largamente il maestro. Chi lascia aveva capito il contesto, ma questi problemi non si risolvono in un mese o due, né cambiando il numero dei consiglieri e neanche riducendo i bonus. Si risolvono con l'umiltà di controllare le somme e continuare a rivedere l'operazione finché capisci dove è l'errore. È come quando sbagli ad allacciare il cappotto partendo dalla prima asola: se non torni indietro fino alla prima, non te ne accorgi».

Come vede il sistema duale?
«Il consiglio di sorveglianza è la sintesi dell'assemblea e deve funzionare bene. Dà il quadro strategico generale. Deve dire al consiglio di gestione: ti do questi paletti, devi guadagnare il 5% del patrimonio, ma tutti gli anni. Potrebbe sembrare poco, ma non lo è. Non è possibile avere il massimo profitto con il minimo rischio. Deve dire se vuole una rimeditazione sulla struttura: se servono 9 banche o ne bastano 3, se quelle del Sud hanno bisogni diversi da quelle della Lombardia. Quanto poi agli accordi fra Bergamo e Brescia, ricordiamoci che questi non sono matrimoni: sono unioni di fatto d'interesse. Troverei intelligente dire che quel patto valeva per la prima volta, non per l'eternità».

Cosa pensa del modello federale?
«Ha una sua giustificazione. Si dice: alcune cose sono comuni, le facciamo insieme così risparmiamo. Se consideriamo le profonde diversità regionali tipiche del nostro Paese, vediamo che abbiamo messo insieme realtà diverse. Le esigenze dei clienti della Lombardia nell'approcciarsi al Sudest asiatico sono diverse da quelle del Sud che vende l'uva italiana all'America. La riflessione è: l'articolazione geografica va bene? Il rischio del modello federato è non riuscire a mettere insieme le ruote del carro. Ci vuole un'organizzazione che le metta a posto a livello divisionale. Un forte accentramento di alcune attività è più facile se produci automobili».

Come valuta i risultati di Ubi?
«Sono i risultati di tutte le banche. Il mondo è cambiato con una rapidità enorme dal 2007 a oggi. Non bisogna rincorrere singole operazioni lucrose ma speculative: bisogna rimettere a posto le quattro ruote del carro. Con il capitale si fa in fretta, con le risorse umane ci vogliono 10-15 anni. Si parla di vigilanza europea: gli ispettori parleranno inglese. Oggi si dice che il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà parlare anche spagnolo. Queste cose fanno capire come sta cambiando il mondo».

Sarà l'ultima assemblea di alcune figure storiche che hanno fatto la banca. Chi è Zanetti e cosa significa per Ubi e per la città?
«Zanetti è cresciuto alla scuola di Suardi. È una persona intelligente, venuto da una scuola molto buona. Ha fatto grande la banca. Cadendo, non per colpa sua, nell'errore di tutti di interpretare la globalizzazione come se l'Occidente avesse dovuto dominarla».

Cosa si aspetta dall'assemblea?
«Cortesia e buon senso in tutti. Ognuno è libero di votare come vuole. Io voto per chi secondo me ha di più la testa nel mondo e devono mettersi di buzzo buono a piegarsi sul tavolo a pensare cosa fare: non per conservare l'esistente, ma per cambiarlo».

Silvana Galizzi

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