Nel garage di Jobs

Giorgio Gandola

Facevano cartello per pagare meno i dipendenti bravi. Scoperta clamorosa, oggi oggetto di class action da nove miliardi di dollari negli Stati Uniti, perchè a comportarsi così - secondo l’accusa - erano i colossi dell’innovazione tecnologica.

Facevano cartello per pagare meno i dipendenti bravi. Scoperta clamorosa, oggi oggetto di class action da nove miliardi di dollari negli Stati Uniti, perchè a comportarsi così - secondo l’accusa - erano i colossi dell’innovazione tecnologica, aziende che da almeno un decennio rappresentano la forza delle idee, il valore del progresso, la way of life del successo attraverso l’intuizione e la lampadina che si accende.

Vale a dire Apple, Google, Pixar, Intel, Adobe, marchi sfavillanti della Silicon Valley, punte di diamante della rivoluzione del microchip, del dominio di Internet su scena mondiale. Ebbene, come da processo che dovrebbe partire il mese prossimo (in assenza di accordo extragiudiziale), questi colossi sono accusati da tecnici e ingegneri di avere azzerato il libero mercato e di avere stretto accordi per non «rubarsi» cervelli a vicenda.

Periodo incriminato, dal 2005 al 2009, durante il quale prima di offrire un posto interessante a un ottimo professionista di un’altra compagnia, era doveroso chiedere il permesso. Il modo migliore per non dare il via ad aste di programmatori geniali e per non rubarsi i capi dipartimento come le squadre di calcio provano a fare con i centravanti durante la campagna acquisti.

La cosa ha dato fastidio a parecchia gente, tanto è vero che a firmare la class action contro i loro datori di lavoro sono stati in 64.000. Crolla un mito e va aggiornata l’epica del garage dal quale i geni del silicio sono partiti. Nel processo si parlerà di coloro che, nel garage e pur essendo geniali, hanno dovuto loro malgrado restare a vita.

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