L'addio a Marco Simoncelli
Ora il suo sorriso non c'è più

Marco Simoncelli non c'è più. Non c'è più il suo sorriso furbetto, non c'è più la sua foresta di riccioli che esplodeva dai cappellini, non c'è più il suo accento romagnolo che lo rendeva irresistibile.

Marco Simoncelli non c'è più. Non c'è più il suo sorriso furbetto, non c'è più la sua foresta di riccioli che esplodeva dai cappellini, non c'è più il suo accento romagnolo che lo rendeva irresistibile, che ti faceva guardare mille volte lo stesso spot, pur di sentirlo scherzare.

Marco Simoncelli non c'è più perché ha fatto quello per cui era nato: stare attaccato alla moto, provare a non perderla, a restare in sella, a tener giù il gas. A vincere. Dice: assurdo morire così. Ma di moto si muore. In pista come in strada. È contro il destino, semmai, che vien voglia di sporgere reclamo.

Perché se c'era un volto dello sport che era impossibile abbinare alla morte, quello era il volto di Marco Simoncelli. E invece il destino ha scelto lui. Lui, che in questa stagione s'era caricato in sella, oltre al suo straordinario talento, anche le tante accuse di essere un barbaro da pista.

Ma non aveva perso il sorriso. Aveva risposto, anche coi nervi tirati, ma sempre regalando una carezza all'ironia. Anche allo sberleffo. «Barbera dice che ho alzato la gamba? L'avrà alzata sua sorella, a me non me ne frega mica niente», aveva risposto una volta, arrotando le vocali. Questo era Marco Simoncelli: a pieni giri, sempre.

Ma stavolta il bastone tra le ruote gliel'ha infilato il destino. Cadute così finiscono quasi sempre nella via di fuga. Stavolta no. Stavolta è rimasto in pista, e sul suo povero corpo è finita tutta la potenza delle altre moto. Compresa quella di Valentino, l'amico. Simoncelli ne era l'erede.

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