Delta Index / Bergamo Città
Lunedì 22 Dicembre 2025
«Orientamento, basta eventi spot.
Diventi strutturale con le imprese»
CAPITALE UMANO. La maggioranza dei giovani fa fatica nelle scelte e il 54% si sente inadeguato al mondo del lavoro. L’assessore regionale Simona Tironi: «Serve una politica educativa con un’alleanza stabile tra scuola e sistema produttivo»
L’orientamento è da sempre relegato ad alcuni momenti specifici della vita di un giovane: la scelta della scuola superiore, dell’indirizzo universitario, dell’Its post diploma o del lavoro. Tutti passaggi importanti ma affidati a esperienze episodiche e staccate le une dalle altre. Una segmentazione che inizia a mostrare segni di preoccupante sofferenza, ancora più oggi che la curva demografica - paurosamente piegata verso il basso - non ci concede di perdere altri giovani nel periodo delle scelte. Un cattivo orientamento significa un futuro incerto e dispersivo, infatti gli ultimi dati nazionali dicono che solo il 3% degli studenti promuove l’orientamento attuato nelle scuole e il 54% si sente inadeguato alle scelte professionali. Insight che mostrano quanto sia urgente lo spostamento dell’orientamento verso le imprese e il mondo del lavoro. L’Osservatorio Delta Index che affianca il progetto di orientamento Skillherz ne ha parlato con Simona Tironi, assessore di Regione Lombardia all’Istruzione, Formazione e Lavoro.
Quando oggi parliamo di orientamento, che cosa significa davvero per un ragazzo? E in che modo è cambiato rispetto al passato?
«L’orientamento oggi è una delle nostre priorità. Significa prendere per mano ogni singolo ragazzo e ragazza e accompagnarli in un viaggio, in un percorso che li aiuti a scoprire sempre di più qual è la strada giusta per assecondare le proprie passioni, far emergere il talento e trovare una realizzazione nel mondo del lavoro. Parliamo di ragazzi che devono diventare protagonisti del loro futuro. Per questo investiamo molto sull’orientamento e stiamo sviluppando diversi progetti che vadano oltre le fiere e le manifestazioni: esperienze concrete, da toccare con mano, per capire che cos’è davvero oggi il mondo del lavoro che li aspetta, che è completamente diverso rispetto a quello di qualche anno fa».
Lei ha più volte detto che l’orientamento non può essere un progetto «spot». Perché questa impostazione non funziona?
«Non credo nei progetti spot, e non solo per l’orientamento. Vale anche per tutti quei progetti che dovrebbero aiutare davvero i ragazzi a crescere, personalmente e professionalmente. I progetti che entrano a scuola per qualche appuntamento e poi finiscono sono gocce nel mare. Lo vediamo sull’orientamento, sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, sul tema delle fragilità, sulle soft skill. Se vogliamo incidere, questi temi devono entrare nell’offerta formativa curriculare. Devono diventare parte integrante del percorso di un ragazzo. L’orientamento deve durare tutto l’anno e accompagnare lo studente lungo tutto il percorso scolastico, non essere confinato agli ultimi mesi degli ultimi anni».
Che cosa succede, invece, quando l’orientamento arriva troppo tardi?
«Succede che i ragazzi scelgono un percorso senza una reale consapevolezza. Seguono mode, pressioni esterne o informazioni frammentarie. L’orientamento non serve a “traghettarli” nel mondo del lavoro all’ultimo momento, ma a permettere loro, fin dai primi anni, di definire meglio che cosa potrebbero fare, che cosa potrebbero diventare, come potrebbero essere utili, qual è la loro passione. È un accompagnamento continuo che aiuta a chiarirsi le idee, non un progetto negli ultimi due mesi con qualche volantino di scuole o aziende».
Questo implica però un cambio di passo anche per la scuola. È pronta a questa rivoluzione?
«È una sfida, ma è necessaria. I nostri ragazzi sono curiosi e noi dobbiamo allenare questa curiosità. Dobbiamo dare loro il tempo e gli strumenti per farsi un’idea chiara del futuro. Se l’orientamento resta qualcosa di accessorio, non funzionerà mai. Se invece diventa parte del percorso educativo, allora può davvero fare la differenza».
Molte imprese faticano ancora a dialogare con il mondo della scuola.
«Il gap tra scuola e mondo del lavoro è il buco nero che dobbiamo riempire. Lo vediamo chiaramente nell’istruzione e formazione professionale e negli ITS Academy: funzionano perché c’è una sinergia forte e strutturata con le aziende. I ragazzi respirano l’ambiente produttivo, vedono dove si crea e dove si produce. Questo li rende più consapevoli, più pronti. È il modello che dobbiamo portare anche in tutte le altre scuole: dall’azienda che entra in aula alla classe che entra nell’azienda».
La Regione cosa sta facendo per favorire questo incontro?
«Uno dei progetti a cui teniamo molto è Lab Lab. Nasce da un’idea semplice: fare le cose insieme ai ragazzi, non solo per i ragazzi. Attraverso una piattaforma digitale, gli studenti delle scuole superiori possono vivere vere job experience nelle aziende, registrandosi su una web app che ci consente di conoscere anche aspetti che spesso a scuola non emergono».
In questo quadro, che ruolo possono avere i centri territoriali di orientamento, nati da iniziative private, come Skillherz a Bergamo e presto nel resto della Lombardia?
«Un ruolo molto importante. Lavorare in sinergia tra ciò che il pubblico può mettere a disposizione e ciò che nasce dal territorio è fondamentale. Unire le forze ci rende più capillari e più efficaci. Queste esperienze possono diventare parte integrante di una politica di orientamento strutturata, proprio perché intercettano bisogni reali e costruiscono relazioni stabili».
Accanto all’orientamento emerge però un altro tema centrale: quello delle fragilità dei giovani.
«È un tema che tocchiamo con mano ogni giorno. Oggi i ragazzi hanno fragilità evidenti, che non possiamo ignorare. Per questo abbiamo investito diversi milioni di euro nell’apertura degli sportelli psicopedagogici nelle scuole. È stata una scommessa, anche culturale, per abbattere lo stigma del “ragazzo che va dallo psicologo”. Oggi abbiamo 380 professionisti tra psicologi e pedagogisti che accolgono ragazzi, docenti e personale scolastico. Coinvolgiamo circa 140 mila studenti e il dato più significativo è che il 50% ha fatto il primo accesso proprio quest’anno: significa che il bisogno c’è».
Resta il tema dello skill mismatch. Le riforme introdotte sono sufficienti?
«Dobbiamo continuare a lavorare sull’allineamento tra formazione e fabbisogni reali delle imprese. Stiamo sperimentando anche nuovi modelli, come percorsi di formazione internazionale nei settori strategici, formando capitale umano direttamente nei Paesi di origine e completando poi il percorso in Lombardia. È un modo per rispondere alla denatalità e alla carenza di personale senza impoverire i territori di partenza».
Quanto pesa oggi il calo demografico sulle politiche regionali per il lavoro?
«Moltissimo. È un dato con cui dobbiamo fare i conti senza ipocrisie. I numeri ci dicono che nei prossimi anni mancheranno circa 255mila persone in età da lavoro solo per effetto della denatalità. È un dato strutturale, non contingente, e significa che non possiamo più permetterci di lasciare indietro nessuno. Dobbiamo portare al lavoro tutte le persone che oggi sono sul nostro territorio e che possono lavorare ma, per diversi motivi, non lo stanno facendo».
Avete avviato anche percorsi di formazione internazionale. In che modo si inseriscono in questa strategia?
«Stiamo lavorando su settori strategici come meccatronica, agroalimentare e data center, attivando percorsi nei Paesi individuati dal Piano Mattei, penso a Etiopia, Tunisia, Algeria, Egitto. Formiamo le persone direttamente nei Paesi di origine con i nostri moduli formativi, con un forte potenziamento sull’italiano e sull’educazione civica, in collaborazione con i ministeri locali e con il sistema delle imprese».
Non c’è il rischio di impoverire i Paesi di origine?
«No, ed è un punto che voglio sottolineare con forza. Gli accordi prevedono che per ogni persona che viene formata e portata in Italia, ne venga formata un’altra sul posto con le stesse competenze. In questo modo moltiplichiamo il valore: importiamo capitale umano qualificato per le nostre aziende, ma allo stesso tempo seminiamo competenze che restano anche nei territori di origine. È un modello che guarda allo sviluppo in modo responsabile e sostenibile».
Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index e di Skillherz
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