Ugo Riva: «Il vaccino dovrebbe entrare nella coscienza di tutti»

#iomivaccino. Lo scultore conosce il valore della scienza medica per esperienza personale: «Se sono ancora in piedi è perché c’è la Medicina».

Ugo Riva ha capito l’importanza delle cure mediche non in astratto, ma passando attraverso la via, assai più incisiva, dell’esperienza personale. Lo scultore bergamasco ha creato opere che sono in spazi pubblici e collezioni private da Roma, a Taipei, a Washington. Ma è anche un uomo che ha conosciuto, precocemente, malattia e ospedali. «Se oggi sono ancora in piedi è perché c’è la Medicina. Sennò sarei già morto. Cinque anni fa ho subito due interventi, uno all’intestino, l’altro per l’asportazione totale della tiroide. Se oggi non avessi le pastigliette non sarei qui. Ho subito una decina di operazioni nella mia vita; da piccolo sono stato salvato da un attacco di appendicite acuta per miracolo. Non credo a occhi chiusi, al buio, ma so che la medicina può essere un’ancora di salvezza».

Ha fatto il Covid?

«Non in maniera conclamata, non si potevano fare tamponi. Però in famiglia ci sono stati malesseri che facevano pensare a quello. Il mio medico di base a Treviolo è morto. Il mio assistente, che lavorava con me da parecchi anni, se n’è andato anche lui».

Come pensa possa essersi generato il fenomeno dei no-vax?

«Credo che nella nostra società covi un grande malessere, e il discorso no vax è un modo come un altro per scaricarlo. Dietro c’è qualcosa di più profondo, tanto che non riusciamo a dargli un’identità ideologica: ci si mescola gente dall’estrema sinistra all’estrema destra. Si respira un’aria di chiusura. Questo Covid ha lasciato dietro non solo morti, ma anche un cambiamento nell’approccio con l’altro. C’è più cattiveria. Diventeremo più buoni, si diceva. Secondo me no. Si è scatenato ancor di più l’individualismo. La rabbia e l’odio verso l’altro sono accresciuti. Il vivere insieme, oggi, è complicato. Ci sono troppe cose che non funzionano. Vaccini e green pass sono stati la prima occasione per scatenare questo malessere».

Come mai ha fatto da fattore agglutinante proprio questa cosa?

«È la questione che passa sui telegiornali tutti i giorni. Ora al centro dell’attenzione c’è il vaccino: la colpa di tutto, per chi cova tanta rabbia, è del vaccino».

E la questione del « no pass»?

«Stessa cosa, tutto collegato, stessa filosofia. Rifiuto totale. Tutti vorrebbero verità, certezze assolute, non ci si rende conto che non è possibile. Anche i maggiori esperti vivono alla giornata. Ci hanno convinto di avere il controllo su tutto, basta un click. Il Covid ha dimostrato che può accadere qualcosa che non si controlla».

Quando le capita di parlare con una persona contraria ai vaccini, che reazione ha? È imbarazzato o cerca di convincerlo?

«Il mio amico fotografo è un no vax. Parliamo di tutto fuorché di quello. Lui va a tamponi. Con gli integralisti fideisti che si arrabbiano non parlo. Con quelli tranquilli si capisce che dietro c’è la paura. La paura che questo vaccino cambi chissà cosa nelle loro vite. Anche io avevo paura. All’inizio la comunicazione può aver prodotto questi effetti, ma riesco a capire anche chi comunicava allora: non si sapeva nulla. Siamo tutti appesi a un filo, ma la gente non se ne rende conto».

Dubbi su possibili danni futuri?

«Non lo so. È nuovo, però milioni di persone si sono già vaccinate. Cerco di pensare sulla base dell’oggi. Oggi so che il Covid è contagioso e può portarmi in rianimazione. E mi muovo di conseguenza. Cosa mi farà il vaccino fra 5 o 10 anni? Non lo so. Dovrei chiedermi anche cosa mi faranno le sigarette che fumo, quel po’ di alcol che bevo. Ho incontrato diversi di questi no vax che ne fanno di tutti i colori. Però il vaccino no. E poi, cosa risponderebbe un no vax a un medico che gli prospetti una chemio perché colpito da un cancro?».

Il vaccino sarebbe da rendere obbligatorio?

«Lo farei. Non è un regime, è la salute di tutti. Ma dovrebbe rientrare nella coscienza di tutti. Come quando, a suo tempo, abbiamo fatto il “Sabin” contro la poliomielite».

Questione di difesa della libertà personale o di dovere civile?

«È un dovere civile. La mia libertà finisce nel momento in cui va a toccare quella dell’altro. Dovrebbe andare in automatico. I numeri ci stanno dicendo che il Covid si combatte con la vaccinazione: facciamola».

L’arte può aiutare in questa temperie storica, in questo clima di rabbia e delegittimazione della Knowledge Society?

«A chi interessa più l’arte? Oggi, specie quella contemporanea, è cosa di pochi. Basterebbe un piccolo sondaggio: “Cosa ne pensi dell’arte contemporanea”? Il 90% risponderebbe: “Non la capisco. La stragrande maggioranza della gente non è più collegata, l’arte sta fuori dal proprio mondo. Distacco tra autore e fruitore, frutto dei troppi “concettualismi”. L’arte che fa tendenza è ormai gestita da dieci guru, a livello di fondi di investimento: pura finanza. Quello che non è finanza conta poco, e quando tutto è arte nulla è arte. Il problema oggi è questo. Si sono rotti i parametri tradizionali, la capacità di distinguere cos’è arte e cosa non lo è. L’oggettività è diventata soggettività, tutto è liquido, impalpabile. L’orinatoio aveva una sua ragione cento anni fa, in un momento rivoluzionario, di grande tensione. Sono sessant’anni che costruiamo teorie sul soffio d’artista. L’avanguardia è diventata accademismo. Un accademismo incomprensibile ai più, come una setta con i suoi adepti e sacerdoti. La gente che ha fatto? Ha staccato la spina».

Come rappresentare plasticamente, da scultore, il conflitto Uomo-malattia, o questa stagione storica, sociale, economica, culturale? Le sue opere alla mostra «Rubeus et alii», a Volterra, per i 500 anni dalla «Deposizione» di Rosso fiorentino, hanno attinenza con questi contenuti?

«Ho lavorato un anno e mezzo sul tema della morte, diverse opere sono nate in questo tempo di Covid. Una è un grande piano ovoidale con una scalinata; una donna cammina verso la cima, in fondo c’è un grande buco ove si viene inghiottiti. Intorno, rocce alla Stonehenge con i nomi di chi è morto. Questo il mio ricordo per le vittime del virus. Un’altra rappresenta un uomo disteso, che riprende un Cristo di Rosso fiorentino. Sopra, appeso, un bue squartato, all’interno di una struttura di ferro dorato, come fosse un altare. Spero di portare a Bergamo queste opere. Sono il segno plastico di come si possa rappresentare questa bestia».

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