L’identità bergamasca. Diversi a nostra insaputa, ma sempre protagonisti

Chi sono i bergamaschi oggi? È il lavoro e l’intrapresa che ci caratterizzano, o cos’altro? Domande aperte sulle profonde trasformazioni in atto nella società bergamasca

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Per capire chi sono i bergamaschi oggi, siamo partiti dai bergamaschi di ieri. Abbiamo visto come in passato il desiderio di sintesi fosse più forte: uno degli elementi comuni ai residenti in città, pianura o valli, per esempio, era la profonda religiosità cattolica. Oggi invece fatichiamo a vedere questa sintesi: sono cambiate le identità, il tessuto sociale ed imprenditoriale.

Per questo ti chiediamo: cosa significa per te essere bergamasco? C’è un’immagine che ti viene in mente?

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Il miracolo bergamasco

Credo che per capire chi si è e quindi per conoscere qual è l’identità oggi dei Bergamaschi dobbiamo capire chi sono stati, e quindi chi erano i Bergamaschi. La nostra provincia è caratterizzata da tre grandi realtà sociali: le valli e quindi la cultura della montagna con le sue asperità, ma anche con il suo saper fare; la pianura, anche lì con una cultura contadina, ma insieme molto aperta sia verso Milano che verso le altre città; e poi la città di Bergamo come sintesi di quelle due dimensioni, la montagna e la pianura, attraversate da un elemento comune, una profonda religiosità cattolica e un indomito spirito imprenditoriale.

Questa combinazione ha creato il miracolo bergamasco. Una città di provincia che è riuscita ad esprimere sia grandi figure politiche e religiose a livello nazionale, sia un tessuto imprenditoriale unico in tutto il Paese. Una città che è tra le città più ricche della Lombardia, una delle regioni più ricche d’Europa, quindi del mondo.

Le principali trasformazioni le abbiamo viste dopo il Covid, perché la pandemia ha mostrato proprio il carattere di questa cultura bergamasca. Impreparati, come il resto d’Italia ed Europa, i bergamaschi hanno dimostrato una capacità di resilienza, cioè di adattamento e di risposta unica: senza volere essere autocelebrativi, proviamo a immaginare cosa sarebbe potuto succedere se quello che è accaduto a Bergamo fosse avvenuto in qualsiasi altra città, nell’incredulità del resto dell’Europa.

La città e la sua grande provincia si sono subito rialzate, il tessuto sociale non si è mai perduto d’animo né fermato, dimostrando la sua capacità di intraprendere, di reagire in maniera attiva (il detto «Mola Mia» un po’ la rappresenta...): non è tanto l’espressione di un’arroganza bergamasca, quanto della consapevolezza del proprio limite ma insieme del non arrendersi, del non abbandonarsi al vittimismo, del rimboccarsi le maniche.

Anche il progetto di riflessione sui valori lanciato da L’Eco credo che sia proprio una caratteristica molto bergamasca: una città di provincia, come ce ne sono tante in Italia, che si chiede quale sia la sua missione è un fenomeno molto bergamasco. Nasce dal bisogno profondamente radicato di intraprendere e di distinguersi. Una città di provincia che non si sente provinciale ma si vuole vivere come protagonista. Incide anche il suo rapporto con Milano e Brescia, importanti città vicine e “rivali”. Una relazione di rivalità costruttiva con loro stimola Bergamo a vedere quello che potrebbe fare di più. È chiaro che, come tutte le città di provincia, non potrà mai eguagliare il dinamismo e la performatività di una metropoli cosmopolita. Però una città che ha tutto quello che ha Bergamo, non lo trovi ovunque in Italia. Ad esempio: il livello di concentrazione di multinazionali in Val Seriana (Persico, Fassi, Radici, Acerbis, per citarne alcune), gruppi enormi in un contesto specifico come quella valle. Sembra quasi un disegno strategico di una politica industriale della città.

In realtà la città non ha bisogno di una politica industriale perché è talmente radicato nel suo tessuto quel dinamismo, quell’intraprendere, quel fare, quel guardarsi continuamente intorno e quindi guardare a Brescia, guardare a Milano per poter emergere, che si crea qualcosa di straordinario. Se uno visita le nostre realtà, scopre delle imprese, delle eccellenze in tutti i settori, perché questa è l’espressione del dinamismo tipico della realtà bergamasca.

In tal senso è molto bergamasco darsi una missione. Cioè voler giocare un ruolo da protagonisti. Non accettare come città di essere messi in qualche modo in disparte, dalle città più vicine, e dalle altre realtà regionali.

Una nuova sintesi tra le identità bergamasche

Torniamo ora a cosa vuol dire “essere bergamaschi” oggi. La risposta dipende molto dalla nostra idea di identità. Abbiamo avuto un’idea di identità come omogeneità: avere una base comune e quindi valori identici. In realtà ciò non è mai avvenuto a Bergamo, sia per le sue differenze interne di tipo geografico sia per quelle di tipo sociale.
Ma nel passato era forse più semplice credere in un’idea di identità come unità, perché era forse più forte il desiderio di sintesi.
Quale era l’elemento, comune, il collante? La profonda religiosità cattolica, ma non senza differenze, perché essa era prevalente, ma vi erano anche delle minoranze, e posizioni non cattoliche (ad esempio una comunità protestante da sempre presente a Bergamo, piuttosto che anche presenze atee e antireligiose).

Oggi fatichiamo a vedere questa sintesi.
Sicuramente sono cambiate le identità bergamasche, è cambiato il modo di stare in montagna, per cui abbiamo un problema, ad esempio, di flussi di spopolamento in certe valli.
È cambiato il tessuto imprenditoriale: sono arrivati grandi gruppi multinazionali e internazionali, è avvenuto un processo di globalizzazione che ha impattato in maniera forte sulla piccola e media impresa bergamasca, e a cascata si sono manifestati dei processi sociali che hanno trasformato le identità.

Durante il Covid si è scoperto che avevamo smesso di comprendere come è organizzato il tessuto sociale, e quindi è mancata una conoscenza di come è organizzata la vita nelle nostre comunità.
Un caso emblematico è quello degli anziani. Avevamo certo la consapevolezza e la conoscenza delle condizioni cliniche delle persone, o delle condizioni economiche dei nuclei famigliari, ma quello che ci mancava, in termini di conoscenza, era il rapporto di questi anziani col tessuto sociale circostante e le caratteristiche delle relazioni famigliari, e di prossimità, che paradossalmente sono diventati vettori di diffusione del virus.

Un tale deficit si è tradotto, purtroppo per noi, in un’altissima mortalità degli anziani nella Bergamasca. Il Covid ci ha mostrato che non ci conosciamo abbastanza o quantomeno ci sfuggono quegli elementi di conoscenza sociale del territorio, come le relazioni di vicinato, la capacità delle comunità di essere presenti in termini di prossimità, quindi una conoscenza veramente sociologica del tessuto sociale.

In questo contesto, allora, uno degli elementi interessanti potrebbe essere, per esempio, quello demografico. Bergamo e provincia rimangono uguali a se stesse in termini demografici, ma aumenta l’età media e si moltiplicano i nuclei di singoli e divorziati. La struttura della famiglia bergamasca è ancora tendenzialmente quella tradizionale, ma compaiono nuove forme di famiglia, ad esempio, di persone sole. Non avevamo il polso di che cosa concretamente, nelle relazioni sociali, significasse quella solitudine.

Infatti una delle risposte immediate dell’amministrazione locale durante il lockdown è stata di organizzare dei momenti di contatto anche telefonico con gli anziani soli, perché ci si è accorti di quanto fosse profonda questa solitudine nella città.
Un altro elemento interessante è la presenza dei migranti, perché ormai un abitante su dieci è un immigrato. Il che vuol dire che una delle sfide che riguardano la nostra comunità bergamasca è la nostra capacità di gestire la diversità e l’altro.
Lo stesso capoluogo è cambiato. Si pensi a cos’era la città di Bergamo prima e dopo l’apertura dell’Università. Oggi 21mila giovani arrivano dal territorio bergamasco e da fuori provincia.

E pensiamo a quanto l’aeroporto abbia inciso nei flussi turistici: Bergamo non aveva questa vocazione però si è riscoperta anche città turistica, d’arte, di cultura.

Tutto ciò cambia le identità della società bergamasca e si fatica a vedere la sintesi tra di loro. Però credo che ci siano ancora degli elementi costanti. Per esempio, è mutato il modo di essere cattolico, ma il tessuto sociale bergamasco resta ancora profondamente cattolico.

A livello religioso, un ragazzo su cinque alle superiori decide di non frequentare l’ora di religione. Lo possiamo spiegare perché una parte di loro può essere di un’altra religione, o può essere legato al fatto che c’è un disincanto, quindi l’affermarsi dell’ateismo, oppure possiamo leggerlo con il fatto che forse oggi il modo in cui insegniamo la religione rischia a volte di essere tradizionale e non intercettare quelle domande antropologiche e di convivenza che riguardano il sapere religioso.

Sono convinto che i valori di riferimento della tradizione giudaico cristiana possano essere degli importantissimi punti cardinali per pensare le questioni antropologiche e di convivenza in un modo non tradizionale, ma che occorra problematizzare con le nuove generazioni; in questo senso quei valori di riferimento cattolici che prima potevano essere dati per scontati oggi vanno interrogati, problematizzati, ma la domanda di senso rimane nelle nuove generazioni. Sarebbe un errore pensare che il tessuto sociale non abbia più questa identità cattolica profonda che viene dalla tradizione di lungo periodo.

E rimane un territorio prevalentemente con una vocazione imprenditoriale. I dati ci dicono che le imprese sono cresciute, anche le imprese giovanili, e sono cresciute le imprese femminili e quindi la vocazione bergamasca all’impresa oggi è caratterizzata anche dall’aumento delle aziende con titolari donne, e questo è un elemento di grande cambiamento culturale per una città come Bergamo.

Perciò, se volessimo enucleare in termini di valori quali sono gli elementi identitari bergamaschi, senza la pretesa di essere esaustivi li identificherei così: l’intraprendere, un sentimento profondamente cattolico e un’idea di famiglia prevalentemente tradizionale. Tratti identitari che si vanno confrontando sempre più con l’alterità, cioè con altre idee di famiglia, con altre idee di religiosità.

E quindi la vera sfida oggi è riuscire a fare sintesi tra le tante diverse identità che caratterizzano l’essere bergamaschi per cui non c’è “un” modo di essere bergamaschi ma quel modo è sintesi delle diverse dimensioni dell’identità bergamasca così come è stato in passato. È una sfida politica, culturale, sociale.

La sfida culturale è pensare i valori come qualcosa non da dare per scontato, da dare per acquisito (come poteva essere ieri), ma qualcosa che devi conquistare giorno per giorno, e quindi se l’idea di non arrendersi, di rimboccarsi le maniche, di non lasciarsi prendere dal lamento vittimistico, se questi sono dei tratti dell’essere bergamasco, questi tratti oggi in qualche modo vanno nuovamente educati, anche nelle relazioni con l’altro, non possiamo darli per scontati. Sono quindi valori acquisibili, che possono, e devono, essere appresi.

Il volontariato non è più solo spontaneità

Prendiamo una realtà come l’associazionismo per capire meglio.

Ci sono ancora centomila bergamaschi che fanno volontariato, quindi un bergamasco su dieci è impegnato in associazioni, ma sono convinto che se centomila sono quelli che noi possiamo registrare, ce ne sono moltissimi che fanno volontariato informale.
Negli oratori, nelle nostre comunità, nelle polisportive: c’è un tessuto di valore condiviso, di agire per il bene comune, presente nelle nostre realtà territoriali.
E non serve un’indagine sociologica per vederlo, asta girare nei nostri paesi, nei nostri quartieri. Attivismo di volontariato che ha fatto la differenza, per esempio, durante il Covid. Qual è uno degli argomenti spesso problematico rispetto al volontariato? Che mancano i giovani. In realtà gli studi, per esempio, dell’Osservatorio dell’Università Cattolica, sul volontariato, ci dicono che in termini assoluti i giovani sono meno, ma in termini percentuali sono di più. I giovani che fanno volontariato oggi sono molti di più in percentuale rispetto al passato. È calato il numero complessivo dei giovani rispetto ai decenni passati e quindi il problema del cambio generazionale in queste realtà associative è legato al fatto che le corti demografiche più giovani si stanno restringendo.

Allora, se vogliamo prendere l’associazionismo come una forma sociale che ci dice di un’attenzione a un senso civico, a un agire che non è solo individualistico, ma che pensa il bene anche degli altri, potremmo dire che la realtà bergamasca gode di ottima salute. E questo è uno dei suoi tratti identitari forti.

Però non possiamo darlo per scontato. Cioè: quali possono essere oggi gli elementi che allontanano un giovane dal volontariato e che invece hanno avvicinato la generazione dei nati negli anni ‘45-‘50, che sono stati i protagonisti del volontariato bergamasco?

Una delle caratteristiche di allora era la grande effervescenza, la libertà di progettare, pensare, ideare. Pensiamo a quanti bergamaschi sono partiti a fare missioni in Africa, con importanti progetti che poi diventeranno grandi realtà di cooperazione internazionale. C’era questa voglia di sperimentare, di intraprendere (questa idea di un’impresa che non è solo l’impresa produttiva ma anche l’impresa sociale e anche l’intraprendere nel senso del prendere iniziativa come elemento di valore), era molto legato alla libertà di poter sperimentare, di potersi mettere in gioco.

Uno dei problemi della società di oggi è l’eccesso dei processi di burocratizzazione, dell’eccesso dei processi di irrigidimento, di razionalizzazione, anche dell’esperienza di volontariato.

Ed è chiaro che qui c’è una tensione. Perché oggi essere dei volontari, per esempio nell’area della salute e del welfare, richiede tutta una serie di attenzioni formative molto importanti. Non si possono mandare volontari negli ospedali, negli ambulatori o nelle realtà domiciliari senza una adeguata preparazione. Non è più come 40 anni fa, non basta la buona volontà, serve competenza, ma essa chiede tempo e quindi trovare l’equilibrio tra la gioia, l’effervescenza dello sperimentare e il tempo dell’acquisizione delle competenze (anche organizzative), è una sintesi difficile.

Quando questa sintesi avviene l’associazionismo funziona benissimo e i giovani ci sono. Quando questa sintesi è faticosa chiaramente iniziano i problemi, perché si rischia di perdere quell’elemento di spontaneità che è tipico della dimensione del volontariato.

Il Covid ha posto fine al “presentismo”

Missione Bergamo si pone il tema dell’idea di sviluppo e l’idea di società futura. Credo che la difficoltà a immaginare oggi la missione di Bergamo, rispetto al dopoguerra, sia legata al fatto che per 40 anni siamo vissuti in quello che potremmo chiamare il “presentismo”.

Ossia l’idea che il domani sia l’ottimizzazione del presente. Non ci siamo più interrogati su che tipo di modello di sviluppo avremmo avuto, perché abbiamo dato per scontato che lo sviluppo che stavamo implementando fosse il modello giusto e quindi si trattava solo di renderlo più razionale, più efficace, più efficiente. Poi è arrivato il Covid.

Uno dei grandi insegnamenti che è rimasto da questa esperienza tragica, riguarda proprio il futuro, perché il Covid ci ha dimostrato che siamo vulnerabili e che non è detto che il nostro modello di sviluppo possa garantire il domani come sta garantendo il presente.

C’erano già dei segnali quando per esempio stavamo discutendo sul fatto che le nuove generazioni sarebbero state meno ricche delle generazioni precedenti, per la prima volta dal secondo dopoguerra ad oggi, che avrebbero avuto più precarietà, meno diritti. Quindi stavamo vedendo che il futuro non necessariamente sarebbe stata l’ottimizzazione del presente, ma credevamo ancora nello stesso modello di sviluppo. La sfida davanti a noi è che non possiamo dare per scontato il futuro, dobbiamo immaginarlo e disegnarlo. Prestando attenzione ad alcune questioni importanti e decisive.

Ecologia e conoscenza a misura dei giovani

Innanzitutto, la questione ecologica e ambientale, che le nuove generazioni hanno posto con forza.
A tal proposito è importante che ci sia una volontà di visione politica, non solo industriale, cioè la transizione energetica non è solo una questione di conversione dei nostri sistemi industriali produttivi, perché solo questo non è sostenibile. Deve essere sostenibile dentro una visione politica, quindi dentro una visione di città, per esempio ripensando la mobilità, ma anche il supporto al rapporto delle famiglie col lavoro.

La transizione verso un nuovo modello ecologico, per esempio, non può non fare i conti con lo smart working. Le nuove generazioni oggi lo chiedono, perché hanno visto che è un’esperienza fattibile. E questo è un cambiamento importante anche in termini di ecologia, di sostenibilità, di mobilità. Tutti ci ricordiamo che il traffico nel periodo post-Covid era sostenibile.

L’altra questione è che cosa significa “generare valore”: è legata sì ai beni materiali, ma anche a quelli immateriali.
Non possiamo non partire dalle caratteristiche tipiche del nostro territorio, un tessuto imprenditoriale e un’etica del lavoro molto forti.
Qui ci sono delle grandissime imprese, delle multinazionali, che si troveranno ad affrontare sempre più una sfida in termini di conoscenza. La loro stessa produzione dipenderà sempre più dalla loro capacità di produrre conoscenza. E non è un caso che oggi sia difficile trovare mano d’opera ad alto contenuto di conoscenza.
Oggi le imprese che producono fatturati straordinari sono quelle che riescono, per esempio, a fare mediazione di energia. Non producono l’energia, ma mediano tra il fornitore e l’acquirente, fanno un lavoro di mediazione, dove ci sono appunto dei saperi tecnici ad altissimo contenuto di conoscenza.
Cosa vuol dire questo? Che non possiamo avere un’idea della missione di Bergamo, che sia ecologica o che sia della conoscenza, che prescinda da quel tessuto sociale che la caratterizza.

Imprenditori e politica protagonisti del cambiamento

Quali sono i protagonisti di questo grande cambiamento?
Il primo è la figura dell’imprenditore organico alla sua comunità, della grande o piccola/media impresa, quello cioè che ha compreso che il valore non è solo la ricchezza economico, ma anche il bene comune. È una sorta di nuova filantropia, capace di attivare processi che sono anche generativi del volontariato, dell’associazionismo, perché essa è presente nel tessuto sociale dei territori.

Rispetto al passato però vedo un altro protagonista importante, che è il ruolo della pubblica amministrazione, delle Università, dello Stato e dell’Europa.
In passato il ruolo delle istituzioni pubbliche era meno importante. L’imprenditore agiva spesso in autonomia grazie al proprio intraprendere, al proprio entusiasmo e creava il suo mercato. Anche indipendentemente dalle realtà della pubblica amministrazione nazionale o europea.

Oggi questa separazione non è possibile. Perché la pubblica amministrazione, sia essa il Comune, o la Regione, lo Stato, possono essere un grande mediatore di risorse economiche messe a disposizione dell’Europa, pensiamo solo al Pnrr.

Oppure pensiamo alle associazioni di categoria: oggi hanno un ruolo importantissimo nell’accompagnare le piccole e medie imprese nei processi di digitalizzazione, di transizione energetica e quindi nel favorire quel tessuto imprenditoriale nel guardare verso l’Europa. Perché sappiamo che le realtà caratterizzate da 10-15 addetti, piccole, ma molto dinamiche, non abbiano spesso le risorse economiche per elaborare strategie legate ai processi di digitalizzazione piuttosto che ai processi di transizione ecologica; e lì la pubblica amministrazione e le associazioni di categoria possono giocare un ruolo importante di mediazione tra quello che sta chiedendo l’Europa e la realtà imprenditoriale del nostro tessuto sociale.

Sicuramente a partire dagli anni ’90 è avvenuto un processo, non solo in Italia, ma direi in tutta Europa, anche di sfiducia e scollamento tra le istituzioni pubbliche e i cittadini.

Oggi è importantissimo riscoprire la fiducia nell’istituzione pubblica, e perciò quest’ultima deve fare un lavoro enorme (cambiare i linguaggi, i modi, gli approcci con il cittadino). Io vedo una grande volontà di farlo: nella sanità, nella pubblica amministrazione in generale, nelle amministrazioni, vedo il tentativo di riavvicinarsi al cittadino.

Nel cittadino c’è amarezza, frustrazione e forse anche un po’ di colpevolizzazione dell’istituzione pubblica per dei processi sociali che egli non ha compreso, perché gli sono mancati quei punti di mediazione, quei momenti di sintesi, di comprensione di cosa stava accadendo che nella prima Repubblica erano rappresentati dai partiti e dai corpi intermedi. Però resta l’impegno a livello locale e la voglia di darsi da fare, proprio a partire da quei i valori bergamaschi per cui non ci si lamenta, non ci si arrende, ma ci si impegna per rendere le cose migliori. È significativo che il problema si tende a vederlo lontano, a Roma, a Bruxelles, non qui.

E a tal proposito credo che si compia un errore, che forse è una delle caratteristiche della cultura bergamasca e del bergamasco: quando affronta un problema ricerca una soluzione immediata e pragmatica, e non sempre si muove alla ricerca della sua causa politica. Si tende a pensare che quella non dipenda più da lui.

In realtà è bene che i bergamaschi vadano a Roma e quindi che ci sia un impegno civile importante nella cosa pubblica. È un elemento che permetterebbe a Bergamo di avere nuovamente un grande ruolo, come in effetti ha, ma di esserne forse più consapevole e quindi di vivere meno la frustrazione. Proprio perché capace di riconoscere quanto invece è protagonista nei cambiamenti sociali con le sue imprese, con la sua sanità, con le sue scuole, perché comunque stiamo parlando di una città ricca, in una delle regioni più ricche d’Italia e dove c’è un benessere diffuso. E tutto questo è frutto anche della qualità del lavoro di chi in questa città vive.

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