«Ho avuto fortuna nella vita: ho scelto di restituirla ai niños di Cochabamba»

LA STORIA. Massimo Casari, figlio del portiere Bepi Casari. Tra poco festeggerà 30 anni di nozze con Veronica. Insieme a lei e al figlio Alessandro ha dato vita al «Cer».

Il nome, a Bergamo, ha il profumo dell’erba tagliata e il rumore secco di un pallone calciato in porta. Casari. Non serve altro per evocare il ricordo di un tempo in bianco e nero, un’epoca di campi polverosi e di speranze incise sui volti dei tifosi orobici e italiani. Bepi Casari, il portiere che ha difeso la porta nerazzurra e quella della Nazionale tra gli anni ’40 e ‘50. Un’icona, una linea d’ombra che protegge un’intera città. E poi c’è Massimo. Un figlio di quella stessa terra, di quella stessa storia, che a un certo punto ha deciso di difendere un’altra porta. Non più quella di una squadra, ma una porta invisibile, fatta di sguardi e silenzi, che si è spalancata su un altro emisfero.

Il viaggio da padre Berta

È questa la storia che arriva, come il vento caldo che soffia dalle Ande, nella nostra rubrica che non conosce confini. È la storia di una vita che non è fuggita, ma si è data. Si è data, letteralmente, a una terra lontana, che profuma di polvere e di spiritualità, dove le distanze si misurano non in chilometri, ma in sogni. È in Bolivia, a Cochabamba, che Massimo Casari ha trovato la sua seconda casa, il suo destino. Il viaggio è iniziato quasi per caso, come una vacanza che ti cambia la vita. «Sono venuto in Bolivia nell’87 la prima volta, tramite il Patronato San Vincenzo. Qui ho conosciuto padre Antonio Berta, fondatore della Ciudad del Niño, e mi sono innamorato dei bambini e sono tornato ogni anno successivo per le vacanze». Quelle vacanze, una dopo l’altra, hanno iniziato a lasciare un segno sempre più profondo. Una crepa nella vita di prima, che si allargava a ogni ritorno. Finché la crepa non è diventata una porta spalancata.

«Ho mollato tutto per la Bolivia»

«Nel ’93, io vendevo auto a Bergamo, avevo due saloni. Ho fatto qui sei mesi, sono tornato, ho venduto tutto e nel ’94 mi sono fermato». Una scelta consapevole, voluta, come si fa

«Ho venduto tutto in Italia e sono tornato in Bolivia, per restare»

con le cose importanti della vita. Un atto di fede. C’è chi fugge dalle proprie radici, chi le dimentica. E poi c’è chi le porta con sé, come un tesoro da condividere. Massimo Casari ha avuto una vita fortunata, dice. E a un certo punto ha sentito il bisogno, la necessità di ridare indietro. «Sono stato fortunato, figlio del portiere Bepi, fortunato da ragazzo e stiamo ridando». Una frase semplice, che racchiude un mondo di gratitudine e responsabilità. E aggiunge, quasi sottovoce, un’altra di quelle fortune che hanno costruito la sua vita. «Fortuna di aver trovato mia moglie. Tra qualche giorno sono 30 anni di matrimonio, il 7 ottobre».

I 30 anni di matrimonio

Con Veronica, una psicologa boliviana, il cammino ha preso una direzione precisa. La loro unione è stata il primo, vero mattone del loro progetto di vita. Insieme, hanno dato vita al Comitato Umanitario Casari Onlus, oggi Associazione Umanitaria Casari Aps. All’inizio tutto è nato da un gesto piccolo, quasi intimo. «La fondazione è nata perché la prima volta che sono venuto in Bolivia una zia mi ha dato 50 dollari per comprare qualcosa ai bambini. Poi ogni anno la gente mi dava sempre di più e non potevo prendere i soldi e metterli in tasca semplicemente per portarli in Bolivia e usarli per aiutare i bambini. Ho creato un’associazione con alcuni amici per poter raccogliere e fare tutto fiscalmente a posto». Dal primo dono di una zia, la cosa si è ingrandita, ha messo radici profonde. Fino a diventare una rete di progetti, di speranze, di vite toccate e cambiate.

Il Centro per i ragazzi a Cochabamba

Il cuore di tutto è un Centro Educativo e Ricreativo a Cochabamba, una sorta di oratorio che accoglie oltre 150 bambini e adolescenti al giorno. Un via vai di piccole storie, di sorrisi, di

«Tanti bambini non possono fare i compiti a casa, anche a questo serve il nostro Centro Educativo»

occhi che cercano un po’ di futuro. «Tanti a casa non possono fare i compiti e vengono da noi e gli educatori li sostengono. Ci sono i turni nella scuola che frequentano, mattina e pomeriggio. E poi per l’altra metà della giornata stanno da noi e gli diamo la colazione e la merenda». Poi, a 70 chilometri di distanza, c’è un altro centro, nato su terreni che appartenevano ai nonni di Veronica. Un luogo dove si fa doposcuola per i bambini e laboratori di panetteria e cucito per le mamme del paese, un modo per dare una speranza e uno strumento di dignità.

Il sostegno da Bergamo

E ancora, il Club Deportivo Cer, il programma Inter Campus che coinvolge quasi 200 bambini, supportata da un partner d’eccezione. «Da 17 anni siamo parte del programma Inter Campus, programma sociale dell’Inter, gestito ancora dalla famiglia Moratti. L’Inter paga le magliette e i nostri allenatori, un bel sostegno». E oggi, a quel programma sportivo si è aggiunto un nuovo, bellissimo tassello: un campo in sintetico, finanziato grazie all’aiuto di don Davide Rota, che ha riportato la squadra nella Ciudad del Niño, il luogo dove tutto è iniziato. Un cerchio che si chiude. Un ritorno a casa. Non mancano i progetti di microcredito, finanziati anche dal Rotary di Città Alta a Bergamo, per sostenere signore e signori della zona con prestiti di 500 dollari, senza interessi. Una piccola rete di fiducia che si allarga, giorno dopo giorno. E poi fino al 2020 il sabato è stato dedicato ai figli dei carcerat i, che a partire dal 2016 non vivono più in carcere ma vi fanno visita.

«L’Inter paga le magliette e i nostri allenatori, un bel sostegno»

«Non potete immaginare le condizioni di un carcere in Bolivia. Mandavamo un bus a prenderli e venivano da noi per passare qualche ora di serenità al nostro centro. Anche con loro colazione e prima di andarsene panini e succhi. Poi col Covid il progetto è terminato». Progetto che è stato un barlume di normalità nel buio più profondo. Un giorno, un’ora, rubata alla disperazione.

L’impegno del figlio Alessandro

La Bolivia, vista con gli occhi di Massimo, non è un’unica entità. È un luogo spezzato in due. «Ci sono case che costano un milione di dollari e appartamenti che costano più che in Italia. E poi c’è un’altra parte di ragazzi che non hanno nemmeno idea di cosa siano le vacanze e vanno a lavorare dopo la scuola». E l’economia di questo Paese in crescita è complessa. C’è una ricchezza che prima non c’era, ma anche una crisi profonda. Massimo torna a Bergamo spesso. «Torno e vedo la gente che ci aiuta, racconto cosa facciamo coi fondi che ci danno». È un ponte umano tra due mondi. Unisce la generosità della sua terra d’origine alla necessità della sua terra d’adozione.

«La speranza è che gli amici di Bergamo continuino a sostenere i nostri progetti»

E il futuro non è solo una parola, è un volto: quello di suo figlio Alessandro, 23 anni, che ha iniziato a occuparsi dell’attività, curando l’edizione del giornalino mensile chiamato Le Eco de Los Niños. C’è qualcosa di poetico in questo nome, una eco lontana di una storia nata dalla nostra terra. «Per i progetti vediamo giorno per giorno, ma c’è sempre qualcosa di nuovo. La speranza è che gli amici di Bergamo continuino a sostenere i nostri progetti». La sua storia è un messaggio, una dichiarazione d’intenti. Dimostra che le radici, quando sono forti, non ti legano a un posto. Ti danno le ali per portarti lontano, per fare cose grandi, per difendere una porta che non è più di un campo di calcio, ma quella di un’umanità che non ha e non vuole confini.

Bergamo senza confini

Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della comunità bergamasca onlus. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per un anno l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected].

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