Arte terapia al museo, fragilità a nudo realizzando insieme una piccola scultura

Gamec, sorprendenti risultati dal progetto «Un posto fisso». Possibilità di incontro, inclusione e riscatto.

«E se diventi farfalla - scrive la poetessa milanese Alda Merini - nessuno pensa più/ a ciò che è stato/ quando strisciavi per terra/ e non volevi le ali». L’arte diventa una possibilità di incontro, inclusione, perfino di riscatto e di trasformazione nei laboratori artistici di «Un posto fisso», iniziativa sostenuta da Fondazione Comunità Bergamasca e Comune di Bergamo, organizzata da GAMeC (Galleria d’arte moderna e contemporanea) con la cooperativa Namasté e Fondazione Opera Bonomelli. È come un canale che mette in comunicazione mondi usualmente distanti, creando un circolo virtuoso di ascolto, attenzione e gentilezza.

Quello che succede ogni mercoledì e ogni sabato nei gruppi dei laboratori, composti da una decina di persone, si può esprimere, con un linguaggio simbolico, rubando qualche immagine alla mostra «Nulla è perduto» in corso alla GAMeC fino al 13 febbraio (per informazioni e per tenersi in contatto www.gamec.it).

Una nuvola, per esempio, non è solo vapore, ci piace considerarla piuttosto materia in trasformazione, un impasto etereo di sogni in viaggio nel cielo, in balia del vento. Nell’esposizione se ne trova una chiusa dentro una teca, opera di Leandro Erlich. Sembra vera, cambia aspetto girandole intorno, anche se è composta da una magia di lastre di vetro e vernice spray. Racconta una forma d’arte in divenire, mai uguale, mobile come le relazioni, adatta a rappresentare anche l’evoluzione di un’anima: un concetto potente che si manifesta in modo concreto, quotidiano, anche nei laboratori artistici del progetto «Un posto fisso».

Rielaborazione personale

Sono cicli brevi, di quattro o cinque sessioni, che partono dalle opere esposte nel museo offrendo piste di rielaborazione personale. Sono aperti ad adulti dai 18 anni in su, anche se l’appuntamento del mercoledì, che in questo momento si sta concentrando sui «Libri d’arte», è particolarmente dedicato agli anziani. Noi abbiamo partecipato di sabato, a un incontro del ciclo che si concentra su «Segno, gesto e materia».

Il luogo di lavoro è una sala luminosa, con un’ampia vetrata che si affaccia su via San Tomaso. La gente passando fuori, ogni tanto si ferma incuriosita a osservare. È forte l’attrazione della cultura, che si rimette in movimento dopo il periodo di oblio e confinamento per la pandemia da covid-19.

Nella stanza ci sono una fila di tavoli bianchi con le sedie disposte tutt’intorno in ordine, separate da una distanza opportuna. Ogni postazione è stata preparata con cura dall’educatrice, che ha disposto in ordine i materiali necessari: un paio di guanti, una piccola scultura realizzata nell’incontro precedente, che l’educatrice museale Lucia Manuela Dondossola definisce «un seme di gesso» e filo di ferro.

I partecipanti, spiega Lucia Manuela, hanno il compito di creare «un contenitore che li rappresenti, all’interno del quale posizionare la piccola scultura che hanno realizzato». Attraverso l’arte si mettono in gioco, dicono qualcosa di sé e allo stesso tempo misurano i propri limiti e i punti di forza.

La prima reazione: meraviglia

«La prima reazione all’arrivo – spiega Giovanna Brambilla, responsabile dei servizi educativi Gamec – è la meraviglia, e a volte la gente si iscrive con un pizzico di incoscienza, senza sapere bene che cosa l’aspetta, anche se poi l’esperienza diventa stimolante e arricchente per tutti». Nessuno, certamente, si aspetta che una «innocua» esperienza d’arte diventi per la propria vita come il battito d’ali della farfalla che scatena una tempesta, o almeno un piccolo scossone emotivo.

Lavorare fianco a fianco è un modo per spezzare stereotipi pregiudizi: «Ci sono spesso dei muri da entrambe le parti – sottolinea Laura Paris, educatrice della Fondazione Opera Bonomelli –, da quella di chi si sente escluso e da chi si sente lontano e affrancato dalla “fragilità”. Creare interazioni con persone che sono al di fuori del proprio cerchio aiuta a considerare una situazione da punti di vista diversi e inaspettati».

C’è chi grazie a questo lavoro è riuscito a recuperare parti di sé che credeva smarrite, chi si è sentito di nuovo considerato e incluso. «Le educatrici del museo – continua Laura – riescono a far emergere grazie ai linguaggi dell’arte aspetti nuovi e diversi del carattere, che a volte nelle situazioni quotidiane restano sommersi. Alcune esperienze sono così forti e utili che le riproponiamo anche nella vita ordinaria della comunità, estendendole agli ospiti che normalmente non partecipano ai laboratori, perché diventano preziose e stimolanti anche per loro. Cambiano durante il percorso le relazioni tra gli ospiti e gli educatori, che in questa situazione particolare possono essere paritarie: un aiuto, a volte, per scardinare le barriere che inevitabilmente si creano. Ci auguriamo di proseguire la collaborazione con il museo anche nel futuro, ci sembra davvero importante».

Nascono ogni volta dinamiche diverse: «Le realtà coinvolte – sottolinea Giovanna Brambilla – ci chiedono di continuare, perché è un’esperienza che offre molti stimoli, e da parte nostra rafforza la presenza e le collaborazioni del museo sul territorio».

Ogni incontro genera esiti sorprendenti: «Quando le persone iniziano a frequentare il corso – sottolinea Claudio Rota, coordinatore di Namasté – trovano qualcosa di diverso da ciò che immaginavano, ma alla fine restano soddisfatte, al punto da chiedere di poter proseguire l’esperienza».

Queste attività sono completamente gratuite ed è stata una scelta consapevole, di valore, compiuta al momento di creare il progetto: «Ci siamo impegnati – sottolinea Giovanna Brambilla – a rimuovere qualunque ostacolo economico. Ci premeva offrire la possibilità a tutti di partecipare, favorendo il dialogo e il confronto tra persone, realtà, stili di vita diversi». Alla base c’è un’idea potente e suggestiva: anche anziani con Alzheimer medio-lieve e persone arrivate dal mondo della strada e delle dipendenze hanno qualcosa da insegnare e da imparare entrando in contatto con mondi diversi e di solito estranei, preclusi. «Significa – sottolinea Brambilla – che il museo li considera fruitori come gli altri, e che l’arte è anche per loro, così come le attività che proponiamo e di cui garantiamo la qualità. La chiave sono le relazioni, l’incontro: le persone hanno bisogno di sentire che c’è qualcuno che dedica loro del tempo, di far parte di un progetto speciale, straordinario dal quale possono uscire cambiati, rinnovati». Questa consapevolezza è il frutto di tanti piccoli gesti: telefonate, dialogo, cura, pazienza, lavoro comune.

«L’arte – commenta Claudio Rota – ha diversi livelli di lettura, molteplici dimensioni, aspetti, profondità. È un linguaggio accessibile a tutti e per questo particolarmente adatto a un’impresa di questo genere. Per le persone con fragilità è spiazzante, perché non sono abituate a considerarlo come parte della loro vita. Accade comunque anche a chiunque di noi, non è scontato avviare meccanismi di riflessione su di sé attraverso un elemento artistico o culturale. Non tutti hanno mezzi, spazi e strumenti necessari per elaborare ciò che sanno e che vivono in modo autonomo. Il lavoro svolto al museo è un’occasione per farlo».

Sono coinvolti nel progetto anche alcuni giovani tirocinanti come Elisa, studentessa del Master per responsabili di servizi educativi della Cattolica di Milano, che ha seguito dall’inizio i laboratori de «Il posto fisso»: «Sono abituata a lavorare con i bambini – racconta – , ma anche questa esperienza con gli adulti è stata molto interessante. Mi ha colpito veder crescere la relazione tra i membri del gruppo da un incontro all’altro. I partecipanti all’inizio si studiavano da un tavolo all’altro ed erano tutti sullo stesso piano, alla fine sono nati rapporti cordiali d’amicizia e qualcuno si è scambiato i numeri di telefono».

Condivise le storie personali

Quando si entra per la prima volta nel laboratorio nessuno conosce la storia degli altri, e strada facendo si condivide solo ciò che si desidera mettere in comune, perciò in una situazione come questa non sono le difficoltà vissute nel passato a determinare l’andamento dei rapporti, ma la capacità di attingere a nuovi elementi e di connetterli in modo creativo: «C’è una relazione di scambio – continua Elisa – che supera e infrange le difficoltà. Nascono bei momenti di condivisione e di ascolto reciproco. Un laboratorio artistico è quasi terapeutico. La gente usa le mani e intanto si scambia esperienze, parla di sé, dei propri ricordi. Si instaurano relazioni positive tra i partecipanti in un clima bello, giocoso».

Annalisa sta terminando il master dello Iulm sul Management delle risorse artistiche e culturali, e partecipando al progetto «Il posto fisso» approfondisce la natura del rapporto tra il Museo e il territorio: «Quando lavoriamo – osserva – è come trovarsi in una bolla in cui il tempo si ferma e tutto può succedere. Ci sono uomini e donne con esigenze e caratteristiche diverse, tutti intenti nel lavoro manuale, e attraverso di esso possono compiere scoperte inaspettate».

Un museo aperto a tutti

L’azione artistica e educativa del laboratorio diventa per tutte le persone coinvolte come il vento che modella le nuvole, le spinge ad assumere forme nuove e diverse: «Mi piace molto lavorare in ambito educativo – osserva Elisa – proprio perché è un mondo in movimento. Questa esperienza mi ha aiutato a capire quanto sia importante il coordinamento con le diverse realtà per offrire alle persone ciò di cui hanno bisogno. Mi ha dimostrato d’altra parte che esiste la possibilità concreta di aprire un museo d’arte contemporanea a tutti - un’impresa che a qualcuno può sembrare un po’ azzardata -, anche se a prezzo di alcuni sconvolgimenti. Per poterlo fare è necessario essere pronti a mettersi in gioco e a uscire dalla propria comfort zone per rendere le sale espositive un posto aperto, accessibile e accogliente». L’arte è un linguaggio dell’anima ed è per tutti, «non solo per un’élite di spettatori colti».

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