
(Foto di Ansa)
MONDO. «Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo non con slogan, ma con i fatti. Ogni insediamento, ogni quartiere, ogni unità abitativa è un altro chiodo nella bara di questa pericolosa idea».
Queste parole di Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e uno dei leader dell’estrema destra che sostiene Benjamin Netanyahu, vanno tenute presenti nel giudicare la decisione del Governo di Israele di procedere con la costruzione del nuovo mega insediamento da 3.500 unità abitative, nella zona denominata E1 a Est di Gerusalemme, destinato a tagliare in due la Cisgiordania, spezzare qualunque continuità territoriale tra Gerusalemme, Betlemme e Ramallah e, appunto, disperdere al vento i residui sogni di uno Stato autonomo palestinese. Un progetto che, secondo quanto si dice in Israele, avrebbe già ottenuto la più o meno tacita approvazione di Donald Trump.
È stata la politica degli insediamenti che lo Stato di Israele ha applicato sul lungo periodo, metodicamente, implacabilmente, a partire dai primissimi anni Settanta quando fu elaborato il cosiddetto Piano Allon, dal nome del suo autore, Ygal Allon, nel 1969 premier di Israele per pochi mesi prima dell’avvento di Golda Meir
Le parole di Smotrich sono importanti perché sono sincere e spiegano tutto. In particolare quegli «ogni». Perché l’insediamento E1 sarà anche l’ultimo chiodo nella bara della soluzione «due popoli due Stati» ma ad ammazzare la soluzione, un passo alla volta, è stata la politica degli insediamenti che lo Stato di Israele ha applicato sul lungo periodo, metodicamente, implacabilmente, a partire dai primissimi anni Settanta quando fu elaborato il cosiddetto Piano Allon, dal nome del suo autore, Ygal Allon, nel 1969 premier di Israele per pochi mesi prima dell’avvento di Golda Meir. Allon era un politico ma, soprattutto, era stato uno dei fondatori e poi il comandante in capo del Palmach, la forza di combattimento degli Yishuv (insediamenti ebraici) nella Palestina britannica e la vera nave scuola non solo dei generali della successiva «Idf» (Israel defence force) ma anche dei dirigenti del Paese. Fu Allon a intuire che la quota di territorio palestinese (e quindi, in prospettiva, la presenza stessa dei palestinesi) poteva essere erosa via via in piccole porzioni. E che gli insediamenti potevano diventare non solo gli avamposti della sicurezza di Israele ma anche il trampolino di lancio per successive espansioni. La sua lezione è stata fondamentale per lo Stato ebraico perché tutti i Governi che si sono succeduti, quale più quale meno ma nessuno escluso, hanno approvato nuovi insediamenti. O hanno tollerato la nascita di centinaia di outpost, insediamenti non autorizzati di gruppi spontanei di coloni. Spontanei si fa per dire visto che a inizio 2023, in Cisgiordania, accanto a 144 insediamenti autorizzati, di outpost ce n’erano 196.
D’altra parte basta osservare il grafico della popolazione israeliana che negli anni si è trasferita a vivere negli insediamenti, che tutta la giurisprudenza internazionale considera illegali, per vedere che la linea da cinquant’anni si muove sempre e solo verso l’alto. Tanto che oggi almeno il 10% della popolazione dello Stato ebraico vive in case che non avrebbero mai dovuto essere costruite, su terreni che appartengono ad altri. Il tutto grazie non solo alla forza militare di Israele ma a piani urbanistici, stanziamenti di Stato, sovvenzioni e agevolazioni per i coloni. In altre parole, Israele ha sempre operato alla luce del sole, forte di una vasta impunità internazionale coordinata dagli Stati Uniti, che hanno bloccato al Consiglio sicurezza Onu più di 80 risoluzioni che osavano criticare il suo alleato mediorientale. Quindi l’idea dei «due popoli due Stati» è morta da tempo, uccisa colpo dopo colpo («ogni» dopo «ogni») dalla strategia israeliana e dall’inazione della cosiddetta «comunità internazionale».
Per questo, oggi, suonano ipocrite le reazioni di sdegno alla proposta del nuovo mega-insediamento (la Ue, pensate un po’, l’ha definito «illegale», come se a Israele l’illegalità avesse mai fatto paura) e l’improvviso slancio di molti Paesi a riconoscere lo Stato di Palestina. Sa di scarico di coscienza, di presa di posizione retorica facile nel momento in cui la si sa inutile. Dieci, quindici anni fa avrebbe avuto un senso, ma oggi… Ed è incredibile che quasi a nessuno, sia tra i sostenitori di Israele che tra quelli della causa palestinese, venga in mente quanti morti e quante distruzioni si sarebbero risparmiati se la strada della legalità internazionale fosse stata seguita fin dall’inizio.
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