All’Italia serve
più autostima

I tempi tecnologici richiedono menti tecnologiche. Ce lo ricorda il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani. Nel mondo anglosassone e nordeuropeo si impara dalle mani. Come diceva il pedagogista svizzero Johan Pestalozzi, è la manualità la chiave per attirare l’attenzione del bambino. La nostra è un’altra tradizione, quella che viene da una cultura umanistica dove si deve imparare ciò che il passato classico ha tramandato. Il ministro Cingolani ha estremizzato: «Basta studiare guerre puniche». Ma ha anche dato inconsciamente voce al provincialismo esterofilo che alligna in molti strati della classe dirigente italiana. L’ idea che in Italia alcune cose vadano storte perché siamo più indietro degli altri è sicuramente vera, ma non giustifica il fatto che si debbano osannare i meriti altrui, e costantemente denigrare i propri. Un vecchio difetto che spesso si ritrova nei popoli che hanno nella loro storia hanno subito lunghe dominazioni straniere e hanno perso autostima.

La scuola italiana ha di che essere fiera di se stessa: è una delle ultime istituzioni che insegna a pensare. E ce lo dicono i fatti: nel campo della biomedica, della fisica, dello spazio, i ricercatori italiani sono eccellenze. Tra gli studiosi più citati nei lavori scientifici a livello mondiale, 55 sono italiani. Non c’è quindi bisogno di scomodare il recente premio Nobel per la Fisica assegnato al Giorgio Parisi per avere conferma. Il problema se mai è un altro: ovvero, perché molti di loro debbono emigrare all’estero per continuare la loro attività scientifica? Una cosa è certa: a certe condizioni, una «sovra-istruzione» equivale in Italia a disoccupazione.

Ma perché allora sono così ricercati all’estero? Perché a loro riesce con più facilità quello che uno specializzato tecnico fatica ad applicare: il training di alto livello nel pensiero puro. Ovvero pensare senza essere inchiodati ad una finalità di scopo. Proprio quello che insegnano le discipline classiche che lavorano sui testi: insegnano a estrarre i dati cruciali e soprattutto a dedurli. Certo, poi mancano quelli che gli anglosassoni chiamano «skills», ed è il problema della scuola italiana. Ma se cancelliamo la scuola di pensiero che duemila anni di storia ci hanno lasciato, alla fine perdiamo identità. La tecnica che sempre più impone le sue leggi è fonte di benessere per l’uomo, ma può renderlo anche suo schiavo, se non si affina la capacità critica. Guardiamo alla dipendenza che può creare lo strumento informatico sui giovani. Guardiamo alla violenza verbale e all’odio che può scatenare l’uso sconsiderato dei social. Solo la cultura diffusa come forma di saggezza di vita può far da barriera all’insorgere incontrollato degli istinti repressi.

Senza contare che la tecnologia, più il tempo passa, più diventa complessa, e quindi terreno di caccia di pochi selezionati che potranno disporre dei molti. Una nuova casta elitaria che già vediamo delinearsi nel monopolio dell’uso dei dati. Apple, Microsoft, Amazon dispongono di tutte le informazioni che possono condizionare la nostra vita. E’ necessario che a questo potere si contrapponga la coscienza critica del cittadino. Ma questa non può venire da un superspecializzato che della vita capisce solo uno spicchio di realtà.

Occorre vedere l’insieme. Occorre sapere che la centralità è la persona, non la cosa. Identità e modernità possono stare insieme. La Baviera è la regione più ricca della Germania. Sull’Isar e sul Danubio i pantaloni di cuoio e il cappello con le piume del gallo cedrone convivono tranquillamente con Bmw, Audi, Siemens, con la ricerca spaziale più avanzata. Si può essere moderni senza rinunciare a nulla della propria tradizione. Ma occorre avere consapevolezza del proprio valore. Ed è forse questo il grande problema italiano.

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