Alpini, coesione in tempi difficili

L’ADUNATA. Messo da parte il capitolo delle presunte molestie, gli alpini ieri hanno riempito il centro di Udine per la tradizionale adunata nazionale, la 94ª della storia repubblicana (il corpo è nato formalmente a Napoli, e non in una città di montagna come si tende a pensare, 151 anni fa).

Il corteo si è aperto con lo striscione recante il motto della manifestazione «Alpini, la più bella famiglia» seguito da quello della commissione pari opportunità della Regione Friuli Venezia Giulia per il rispetto delle donne e contro la violenza di genere. E non dobbiamo dimenticare che l’adunata si è svolta in un clima particolare, nel contesto di una guerra alle porte dell’Europa. Un bagno di folla che premia uno degli elementi di coesione dell’Italia repubblicana. Perché uno dei motivi della popolarità degli alpini è il loro rapporto con il territorio. Da sempre le brigate alpine della Val d’Aosta, del Friuli o del Piemonte sono riempite da giovani delle regioni. Lo stesso vale per la gloriosa Brigata Orobica, che aveva sede a Merano, ma era composta da molti bergamaschi (ma ve ne sono numerosi anche nella altre brigate di montagna, come la Tridentina e la Taurinense).

Un secondo motivo è che si resta alpini per sempre e si sta tra la gente, tanto è vero che una volta congedati le penne nere e bianche si sono sempre prodigate per la salvaguardia del Paese, con colonne mobili di pronto intervento perfettamente integrate nella rete della protezione civile. Non a caso Giorgia Meloni, intervenuta a Udine, ha accostato il corpo al concetto di patria, cogliendo l’occasione per definire quest’ultima «la seconda mamma» degli italiani. Retorica? Può darsi, ma non certo per gli alpini, uno dei corpi più gloriosi e popolari della nostra storia militare. Non dobbiamo dimenticare che nella Seconda guerra mondiale le divisioni Cuneense, Tridentina e Julia, schierate in Russia, sono state considerate dall’Armata Rossa «invitte» per il loro valore dimostrato in quelle terre lontane.

Ieri la premier ne ha approfittato per rilanciare l’idea di ritorno alla leva obbligatoria, sospesa (e non abolita) nel 2005 come stabilito dalla legge 226 del 2004. È davvero necessaria una leva di uno o due anni o una minileva obbligatoria di 40 giorni come va dicendo da tempo il presidente del Senato Ignazio La Russa? Con la possibilità di un servizio civile di un anno, non pare che si tratti di una necessità urgente per servire il Paese. Oltre tutto gli argomenti militari di chi ritiene la leva superflua non mancavano: le guerre oggi si combattono con droni, missili e robot teleguidati (e infatti a rimetterci sono soprattutto i civili, i cosiddetti effetti collaterali, a cominciare dai bambini) ed è più che sufficiente l’impiego di corpi volontari specializzati. Ma l’invasione russa, con la difesa ostinata del popolo ucraino, chiamato alle armi dai 18 ai 60 anni, sembra aver ribaltato queste concezioni. In Ucraina assistiamo a una difesa della patria e a un senso di appartenenza che arriva fino al sacrificio, come avviene a Bakhmut, simbolo della resistenza di questo popolo coraggioso che sta piegando il secondo esercito del mondo. Lo stesso senso di appartenenza di cui parla Machiavelli nel Principe a proposito dell’esigenza di un esercito di leva, ma soprattutto sancito anche nella nostra Costituzione all’articolo 52.

Tornando al corpo degli alpini, non dobbiamo dimenticare le missioni in cui sono stati impiegati per difendere la pace in tutto il mondo come forza di interposizione o di contrasto in difesa della democrazia, dall’Afghanistan al Libano, dall’ex Jugoslavia all’Africa, in questa Terza mondiale a pezzetti che si combatte nel globo e in cui gli alpini sono presenti per portare la pace.

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