Appalti, i rischi degli assalti dei soliti amici e cugini

ECONOMIA. Il sistema degli appalti fluttua tra l’esigenza di andare spediti snellendo e semplificando il ginepraio della burocrazia e la trasparenza - nel rispetto della concorrenza - nell’assegnazione delle opere. Tangentopoli infatti è sempre in agguato.

Il nuovo codice degli appalti, approvato definitivamente il 28 marzo, contempla certamente la prima esigenza. È quella che si potrebbe chiamare «deregulation», proprio per arrivare alla realizzazione di più opere e in meno tempo possibile dopo l’immobilismo della stagione della pandemia, favorendo keynesianamente la ripresa economica e l’occupazione. Sul versante estremo però le perplessità non mancano. Nella lente ci sono le «soglie» minime al di sotto delle quali si potrà procedere in modo semplificato.

Si possono infatti assegnare appalti in via diretta per lavori fino a 150.000 euro e per servizi fino a 140.000 e con procedura negoziata senza bando (che equivale in pratica a una gara ristretta a poche imprese) fino a 5,3 milioni di euro.

La legge ha sollevato le perplessità di Giuseppe Busia, presidente dell’Anac, l’Autorità anticorruzione. Le nuove norme infatti portano ad assegnare oltre il 98 per cento degli appalti pubblici in Italia senza gara di appalto. Per soprammercato torna l’appalto «integrato», in cui l’impresa che si aggiudica l’assegnazione dell’opera può abbinare progettazione ed esecuzione, una procedura che il codice del 2016 vietava (ma che aveva già registrato deroghe durante il lockdown). L’esclusione automatica dalle procedure di assegnazione, invece, rimane in piedi per chi abbia riportato condanne definitive, di primo grado o misure cautelari per reati che la prevedono (corruzione per esempio), ma non per chi per gli stessi abbia patteggiato ove possibile una pena.

Dunque, come ha spiegato Busia, il pericolo è che molti appalti possano essere oggetto di pesanti favoritismi, o peggio. Il sindaco potrebbe assegnare la ristrutturazione di una scuola al cugino imprenditore edile, all’amico che gli ha finanziato la campagna elettorale, a un mafioso, a un’impresa con capitali riciclati. Questo significa che i 7.900 sindaci italiani sono nepotisti, corrotti, concussi e mafiosi? Ovviamente no.

Semplicemente si vorrebbe impedire che un’infinitesima parte degli amministratori (perché il peccato originale esiste) ricorra a questi ambienti nel pilotare le gare d’appalto. L’occasione, come è noto, fa l’uomo ladro. Ma la Lega, il partito del ministro delle Infrastrutture Salvini, ha voluto scendere, lancia in resta, contro le dichiarazioni di Busia, il quale oltretutto in quanto presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione queste cose ha il dovere di dirle per metterci in guardia, oltre che di vigilare. E invece sono state chieste le sue dimissioni, definendolo «prevenuto, non neutrale e dunque non credibile», citando in causa il presunto onore ferito dei sindaci italiani.

Le critiche sono state talmente dure che il numero uno dell’Anticorruzione è stato costretto a intervenire per aggiustare il tiro, definendo i sindaci «degli eroi che svolgono una funzione essenziale». E a quel punto anche dal ministero delle Infrastrutture è arrivato un segnale di pace: «Grande soddisfazione e sollievo per l’evidente correzione di rotta del presidente», dettano fonti del Mit. La polemica, insomma, è stata disinnescata. Evviva. Ma il problema di «bando selvaggio» e del pericolo di infiltrazioni mafiose, oltretutto in vista dei finanziamenti previsti dal Pnrr e dalle Olimpiadi Milano-Cortina, rimane. Davvero la mafia se ne starà con le mani in mano di fronte a una torta del genere? O è offensivo nei confronti dei sindaci dire anche questo?

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