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MONDO. Il Consiglio europeo, formato dai Capi di Stato o di Governo dei 27 Paesi membri della Ue più i presidenti del Consiglio europeo stesso (Antonio Costa) e della Commissione europea (Ursula von der Leyen) è, per definizione, «l’istituzione che definisce le priorità e gli orientamenti politici generali dell’Unione Europea».
È il consesso più alto e decisivo della comunità. Ciò che è avvenuto nei giorni scorsi a Bruxelles, durante l’ultima e tormentata riunione del Consiglio, va quindi considerato non solo emblematico delle difficoltà presenti ma anche indicativo dei futuri percorsi dell’Unione europea. Come si sa, al centro del dibattito c’era la proposta, sostenuta soprattutto dalla Germania e dai Paesi del Nord e dell’Est europeo, di utilizzare gli asset russi congelati in Europa per sostenere la resistenza dell’Ucraina. Per gli ucraini un rapido finanziamento, come più volte ricordato dal presidente Zelensky, è un’esigenza vitale, anche oltre le dinamiche della guerra: Kiev è sull’orlo della bancarotta, ha bisogno di fondi entro la primavera 2026 per sostenere le forze armate ma anche per tenere in piedi lo Stato.
La proposta si è scontrata da subito con molte opposizioni, di cui si è fatto primo interprete Bart de Wever, premier di quel Belgio dove ha sede Euroclear, l’agenzia che tiene congelati nelle sue casseforti 210 miliardi russi. Le ragioni di De Wever (ma anche di altri, Italia e Francia, per esempio) erano in sostanza queste: le possibili «rappresaglie» russe (anche Mosca ha congelato beni occidentali, per un valore che varia secondo le diverse stime), il timore di una reazione negativa di altri investitori istituzionali (espresso anche dalla Bce: un segnale di inaffidabilità dell’euro con conseguente svalutazione dei titoli emessi in questa valuta) e gli interessi non sempre dichiarati e dichiarabili della stessa Euroclear, che ha come soci circa 100 istituti finanziari come Jp Morgan, BlackRock, State Street, Bnp Paribas, Société Genérale, interessati a incassare gli interessi del capitale russo (2% l’anno) e a evitare eventuali cause da parte della Russia. Per finire, le pressioni Usa: in questa fase, con il negoziato in corso, Trump non vuole premere troppo sulla Russia, per tenersi l’arma del sequestro in caso di fallimento.
Anche la Germania e i suoi alleati, peraltro, avevano i loro retropensieri. Il cancelliere Merz ha fatto notare nei giorni scorsi che dal 2022 il suo Paese ha versato all’Ucraina aiuti per 80 miliardi di euro e la speranza di non versarne altri, ora che le risorse servono per varare il grande piano di riarmo e contrastare la crisi economica, gli era di certo presente. Non a caso al suo fianco era schierata Mette Frederiksen, premier della Danimarca, Paese che, in proporzione al Pil, è stato tra i massimi donatori pro-Ucraina ma che nelle scorse settimane ha annunciato di voler dimezzare l’impegno. Ma più ancora della preoccupazione economica deve aver pesato, nelle considerazioni di Merz e della von der Leyen, il ragionamento politico. Mettere a disposizione dell’Ucraina un capitale da 210 miliardi significava dire a Putin che Kiev avrebbe avuto i mezzi per resistere a lungo e a Trump che l’Europa poteva fare a meno del sostegno Usa, essendo capace di trovare da sola le risorse per aiutare l’Ucraina. E quindi per contare di più al tavolo del negoziato, dove Usa e Russia stanno di fatto conducendo una trattativa personalizzata.
Si sa com’è finita. No al sequestro dei beni russi, sì a un prestito di 90 miliardi garantito dal bilancio comune Ue. Fuori dall’accordo i soliti Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, al motto «non più un soldo per l’Ucraina e per la guerra». Quasi tutti si sono esercitati, visto l’esito, nella conta dei vinti (Merz, von der Leyen) e dei vincitori (il belga De Wever, la Meloni, Macron). È un giudizio sommario. Come non di rado le capita, l’Unione europea ha solo scelto di rinviare. I 90 miliardi sono una preziosa boccata d’ossigeno per l’Ucraina che però risolve poco. Però l’Europa non ha rinunciato a considerare strategica la resistenza degli ucraini, per la propria sicurezza e per guadagnare tempo nel processo di riarmo. La sensazione, quindi, è che di quei 210 miliardi e dell’uso da farne sentiremo ancora parlare.
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