
( foto Bedolis)
BERGAMO. In pochi fanno molto. E anche se il molto è davvero molto, è comunque fatto da pochi, troppo pochi. Forse è questa la risposta per chi s’interroga su come sia possibile che in una tiepida mattina di settembre, un clochard possa morire in solitudine sotto il piccolo portico della chiesa di San Marco e Santa Rita, sulla centralissima via Locatelli, a pochi passi dagli uffici pubblici e privati più frequentati di Bergamo.
Ma se questa è la risposta, non possiamo che porci un’altra domanda: perché così pochi? E perché sempre di meno? Dove sta «l’errore»? I bilanci contabili di Palazzo Frizzoni e della Diocesi - sia sotto il profilo economico sia sotto quello dell’impegno e delle iniziative in campo - dimostrano chiaramente che gli sforzi profusi verso l’accoglienza e il sostegno degli ultimi, di quelli che abitano il «sottosuolo» dell’umanità - per dirla con Fedor Dostoevskij - sono tutt’altro che irrilevanti, ma nonostante questo lavoro straordinario, che coinvolge almeno 1.500 volontari, accade ancora una volta che qualcuno lasci la propria vita, e gli stracci che la ricoprono, sulla ruvida pietra al ciglio di una strada, in pieno isolamento. Perché in fondo, a ben vedere, lo scandalo non è la morte in sé, e nemmeno la povertà, ma il contesto di solitudine o - peggio - di isolamento, nel quale (probabilmente) lo stesso clochard ha voluto confinarsi. Viene in mente un aforisma lapidario di Marc Augé, il grande antropologo dei non-luoghi scomparso nell’estate del 2023, che in un’intervista a margine del suo «Diario di un senza fissa dimora» sosteneva che «la solitudine è una scelta (l’altro c’è, se vuoi), l’isolamento è invece una condanna (l’altro non c’è anche se lo vuoi)».
«Se l’è cercata» diranno i raffinati interpreti della nostra società, ignorando che sono proprio queste convinzioni, queste verità in tasca a buon mercato, il piccolo «germoglio» che giorno dopo giorno mette radici profonde, propagandosi come erba infestante tra l’ignavia generale, complice la pigrizia spirituale che «anima» le nostre vite. Una sorta di torpore mentale che ci fa chiudere i pori della sensibilità, lasciandoci nell’indifferenza e con la convinzione di essere impotenti di fronte agli sconvolgimenti della vita. Forse lo troviamo semplicemente più comodo, forse è proprio questa impermeabilizzazione a far sì che ci scivolino addosso - senza provocare alcuna reazione - le parole e i gesti di violenza e di razzismo che popolano la nostra realtà quotidiana, in televisione e sui giornali. Per non dire sui «social», paradosso lessicale per identificare una piattaforma nata per confrontarsi e scambiarsi idee liberamente (?) che di «social» ha poco o nulla, un’agorà digitale senza limiti e senza confini che ogni giorno alimenta dosi massicce di odio e di aggressività, veicolata sotto la patina del perbenismo e della ragionevolezza. Un po’ come fa certa parte della nostra politica.
In un mondo in cui empatia e sensibilità crollano a picco nel gradimento sociale, e dove lo spettro della compassione e della pietà lascia volutamente fuori le fasce di popolazione più fragili, scopriamo purtroppo che pronunciare parole di bontà suscita fastidio, forse perché custodiscono al loro interno la verità e l’essenza delle cose. E chi lo fa, lo fa quasi con pudore, intimorito dalla forza con cui oggi - a giorni alterni - si impongono cinicamente i falsi valori dell’economia o della violenza, per non parlare dell’ultimo oracolo in terra, rappresentato dalla geopolitica. La complessità dell’uomo non ha più alcun appeal, così come l’umanesimo che dovrebbe sottendere alle nostre scelte. «Viviamo una doppia catastrofe umanitaria - riflette il filosofo Mauro Ceruti, tra i massimi esponenti del “pensiero della complessità” -. Da un punto di vista esistenziale, intere popolazioni muoiono di fame e di sete sotto le bombe. Ma anche la nostra società, che non vive questa tragica situazione, è tuttavia protagonista di un’altra catastrofe, quella che ci impedisce di percepire l’umano, di avere la sensibilità per capire che l’altro siamo noi, e che, invece, è possibile vivere in un mondo buono».
In un mondo in cui empatia e sensibilità crollano a picco nel gradimento sociale, e dove lo spettro della compassione e della pietà lascia volutamente fuori le fasce di popolazione più fragili, scopriamo purtroppo che pronunciare parole di bontà suscita fastidio, forse perché custodiscono al loro interno la verità e l’essenza delle cose
Un «controsenso» - se così lo possiamo definire, ed è comunque una definizione impropria - che ha dimensioni planetarie. C’è qualcosa che non va se l’Europa continua a non capire che i nazionalismi oggi imperanti nel dibattito comunitario la seppelliranno prima ancora che lo facciano le «bombe» (figurate e non) dei suoi nemici (molti, purtroppo, «allevati» in casa). C’è qualcosa che non va se lo zar russo si prende gioco quotidianamente del resto del mondo, con provocazioni che ci spingono ogni giorno che passa verso il baratro della guerra. C’è qualcosa che non va se il leader israeliano continua a perseguire incurante di tutto e di tutti la propria logica di morte, cancellando la Palestina dalla faccia della terra. C’è qualcosa che non va se il presidente Herzog garantisce al Papa che Israele «anela la pace», salvo poi non far nulla contro l’espansione militare del suo esercito in Terra Santa. C’è qualcosa che non va se il presidente statunitense dice quel che dice e fa quel che fa, lasciando attonito il mondo intero.
C’è qualcosa che non va se continuiamo a lasciar fuori dalla nostra vita e dalle nostre scelte la centralità della persona umana. C’è bisogno di un nuovo umanesimo, in grado di orientare le differenze e di porre al centro la persona. «L’uomo - scriveva Benedetto XVI nella “Caritas in Veritate” - è il soggetto unico della storia e della creazione, non un semplice elemento fra gli altri». Dimenticarsene sarebbe una follia.
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