Cercasi capolavoro
per il rebus Quirinale

La corsa al Quirinale continua in una apparente confusione senza che si intraveda una regia, o meglio un regista: un leader politico in grado di raccogliere le volontà degli altri e condurli verso un obiettivo condiviso. Successe nel 1999 con D’Alema che fece eleggere Ciampi al primo scrutinio e quindici anni prima era accaduto con De Mita che aveva portato Cossiga al Quirinale con un altro capolavoro tattico. Ora non sembra esserci nulla di tutto questo.

Probabilmente perché tutti i leader sono deboli (del resto, se così non fosse, Draghi non governerebbe a Palazzo Chigi), ma soprattutto perché è evaporato nel corso di una sola legislatura il M5S che nel 2018 gli italiani incoronarono come il partito di maggioranza e che oggi è un conglomerato di correnti e cani sciolti, tutti l’uno contro l’altro, privi di una guida riconosciuta, uniti da un solo obiettivo: rimandare il più possibile le elezioni politiche che segnerebbero il rientro in una oscura precarietà di tanti che oggi calcano il Transatlantico di Montecitorio o il Salone dei Re di Palazzo Madama.

Senza dimenticare che neanche il segretario del Pd Letta sembra in grado di assumere risolutamente la guida della corsa: il suo problema in questo momento è tenere a bada le numerose correnti del suo partito. Quanto al centrodestra, tutto è bloccato dal fatto che Silvio Berlusconi si è davvero messo in testa che potrebbe diventare presidente della Repubblica: ma se anche non riuscisse nel suo progetto, l’ultraottantenne vorrebbe essere lui il king maker, insomma il regista di cui sopra.

Questa incertezza nasce dal rifiuto mattarelliano di una proroga del settennato: sarebbe stata la soluzione perfetta per mantenere in piedi l’equilibrio attuale, dare fiato ai parlamentari fino alla fine della legislatura nel 2023 con Draghi a Palazzo Chigi e poi eleggere il medesimo Draghi al Quirinale per offrire una garanzia internazionale sui conti pubblici dell’Italia lunga sette anni. Ma Mattarella non ha accettato la conferma, e così Draghi si è trovato in una scomodissima posizione: dall’alto del suo prestigio rischia infatti in un colpo solo di perdere prima il Quirinale e a distanza di pochi mesi anche il governo. Con quali conseguenze per l’Italia è facile immaginare. Quando, durante la conferenza stampa di fine anno, ha fatto capire che potrebbe essere disponibile al Colle ha raccolto solo freddezza, e si capisce: con lui presidente della Repubblica, chi andrebbe al suo posto a governare? Una figura troppo «tecnica» e incolore come il designato Daniele Franco, ministro del Tesoro, non reggerebbe un solo mese e si finirebbe per andare a votare, cosa che nessuno vuole. Tranne Giorgia Meloni (sicura di vincere) che infatti è l’unica che esplicitamente appoggia l’idea di Draghi presidente.

Ecco perché si va facendo strada l’ipotesi di due vecchie certezze: Pier Ferdinando Casini e Giuliano Amato. Ma in queste ore soprattutto quella di Amato: l’eterno «Dottor Sottile» dei mille prestigiosissimi incarichi, già candidato al Quirinale almeno un paio di volte. Ora è giudice costituzionale in procinto di diventare presidente della Corte. Rispetto a Casini ha un vantaggio: è un ottantatreenne che potrebbe accettare, per il bene della Patria, di rimanere in sella solo due o tre anni. Insomma, di fare quello che Mattarella si è rifiutato di fare. Tutti gliene sarebbero grati, a cominciare da Draghi suo vecchio amico e collaboratore. Ma davvero una volta seduto sulla poltronissima della Repubblica Amato accetterebbe di alzarsi anzitempo?

© RIPRODUZIONE RISERVATA