Comunicare bene
per portare salvezza

Si celebra quest’oggi la 55a giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che prende il titolo dal messaggio di Papa Francesco: «Vieni e vedi» (Gv 1, 46). Comunicare incontrando le persone dove e come sono. Questa riflessione dedica uno spazio più ampio alla comunicazione giornalistica, ma vi ritrova, più in grande, i caratteri che rendono autentica anche la comunicazione quotidiana: mentre il Papa parla ai giornali invita ciascuno a custodire parole e narrazioni buone, oneste e limpide. Innanzitutto, dice il pontefice, è necessario essere disposti a compiere una torsione di postura, perché ciò che si vuole dire lasci spazio a ciò che ha bisogno di essere ascoltato: «È necessario uscire dalla comoda presunzione del “già saputo” e mettersi in movimento, andare a vedere, stare con le persone, ascoltarle, raccogliere le suggestioni della realtà, che sempre ci sorprenderà in qualche suo aspetto».

Vieni e vedi di persona, dunque; è l’invito a una comunicazione che non rimanga asettica e distante, che non confonda la professionalità con il non lasciarsi coinvolgere nei fatti di cui si racconta. In tal senso, la verità non può essere semplicemente il risultato di un’operazione di pulizia del linguaggio e di confezionamento da retro-bottega, ma è qualcosa che si guadagna sulla propria pelle quando si è disposti ad andare per strada e a «consumare le suole delle scarpe»: «Se non ci apriamo all’incontro, rimaniamo spettatori esterni, nonostante le innovazioni tecnologiche che hanno la capacità di metterci davanti a una realtà aumentata nella quale ci sembra di essere immersi». Una comunicazione che veda coinvolti perché abbia a che fare con i volti degli altri, con i loro drammi e le loro speranze quotidiani.

Vieni e vedi, esci e coinvolgiti in prima persona. È questa la ricetta, presa dal Vangelo, che il Papa offre per guarire le abrasioni della comunicazione contemporanea, accarezzata dal rischio di notizie fotocopia che hanno più il problema di fare scoop che di accendere uno sguardo e un cambiamento, dal fascino per l’on-line che illude di poter incontrare l’altro senza mai doverlo guardare negli occhi, dal vuoto di un’eloquenza che riempie il silenzio, ma non ha nulla da dire perché continua a ripetere se stessa. Dai rotocalchi e dalle news a video queste attenzioni rimbalzano nella vita di tutti i giorni, per mettere in circolo nuova linfa nelle comunicazioni quotidiane, spesso appiattite sui medesimi schemi: parole ripetute per sentito dire, parole che non dialogano perché incapaci di «commuoversi» cioè di muoversi-con la vita degli altri, parole che hanno bisogno solo di riaffermare l’ego e le certezze di chi parla.

Le parole hanno un potere salvifico. Parole come «grazie», «scusami, «addio», «ti amo» sono semplici vibrazioni nell’aria o tracce d’inchiostro su un foglio, ma quando giungono a noi hanno la forza di rimetterci in piedi o di distruggerci, a seconda di come ci vengono rivolte. Dentro una telefonata, una mail o un incontro per strada ci sta la possibilità di diventare portatori di un po’ di salvezza. Prenderci cura delle nostre parole, piccole o grandi che siano, domestiche o da testata giornalistica, è una scelta che poi può diventare voce da prestare a chi ne ha di meno: «Chi ci racconterà l’attesa di guarigione nei villaggi più poveri dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa? […] Con i poveri sempre ultimi e il diritto alla salute per tutti, affermato in linea di principio, svuotato della sua reale valenza. Ma anche nel mondo dei più fortunati il dramma sociale delle famiglie scivolate rapidamente nella povertà resta in gran parte nascosto». Comunicare e imparare a farlo bene è dunque un atto morale.

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