Da Mattarella una nuova lezione

ITALIA. Nelle celebrazioni del 25 Aprile contano soprattutto tre aspetti: le parole, i gesti, la scelta dei luoghi. Il trittico virtuoso s’è compiuto con l’intervento di Mattarella a Cuneo, epicentro della Resistenza, nella terra dei 12mila partigiani e delle 34 Medaglie d’oro al valor militare.

Il presidente della Repubblica, come sempre, ha messo le cose a posto, quando ha detto che «la Costituzione è figlia della lotta antifascista». Basta l’aggettivo, antifascista, per restituire il senso pieno a questa giornata, che appartiene al calendario civile repubblicano: non sempre condivisa da tutti, talora divisiva anche all’interno delle stesse forze antifasciste, comunque capace di una propria forza incisa nelle sofferenze e nel riscatto della miglior Italia. Indicare senza amnesie da che parte veniamo significa sapere chi siamo, di chi siamo figli, contribuire alla costruzione di una memoria possibilmente collettiva. È ciò che si chiama identità di un Paese e che nel nostro caso prende il nome di quel sistema imperfetto che è la democrazia. Aver riaffermato il nesso concettuale fra Costituzione e antifascismo vuol dire onorare il passato nella sua verità storica e dare dignità al presente, riunendo la cittadinanza dinanzi ai valori che fondano il carattere di un Paese. Tutto ciò è mancato, e suona come un’occasione persa, in alcuni rappresentanti di primo piano della destra di governo: parole sbagliate in un ripetuto contesto di omissioni e banalizzazioni (Giorgia Meloni, nella lunga lettera di ieri al «Corriere», elogia libertà e democrazia ma non cita l’antifascismo). Una democrazia funziona se può contare su una forte identificazione da parte dei suoi concittadini ed è questa la cifra storica della Liberazione e, insieme, la pedagogia civile che Mattarella s’è imposto nel suo percorso da presidente della Repubblica: quel patriottismo costituzionale che, da Ciampi e poi con Napolitano, viene rinnovato costantemente dando un tono consensuale alla convivenza civile. Ci sono altri due significati da considerare. La giornata del 25 Aprile è stata istituita non da un uomo di sinistra ma da De Gasperi e qui si coglie una continuità, perché Mattarella, e con lui il cattolicesimo politico, è dentro questo legame istituzionale, di sostanziale tenuta democratica che passa dalla Costituzione formale, dalla costituzione materiale dell’Europa, al sistema delle alleanze internazionali e all’ingresso delle masse popolari nello Stato. L’affermazione, poi, che la Resistenza è stata una «rivolta morale di patrioti» rende giustizia dell’ampiezza del fenomeno rispetto a una certa storiografia che ha puntato sull’enfasi della «zona grigia», l’area attendista e non schierata fra repubblichini e partigiani. In realtà c’è stato un mondo di solidarietà minuta e molecolare, specie nella realtà contadina che ha rappresentato il presupposto per la nascita di una nuova identità collettiva: «In questo modo – scriveva anni fa lo storico Pietro Scoppola – s’è costituito un circuito radicalmente alternativo alla precedente idea di nazione. E questo è proprio il merito e l’orgoglio del nostro Paese». Se dunque la Repubblica è fondata su una Costituzione antifascista, il partito di Giorgia Meloni ha qualche problema con la Costituzione stessa nel momento in cui la parola che tutto spiega continua a essere impronunciabile. Questione connessa al fare i conti con la propria storia ingombrante. Lo fa in solitudine, perché si può ritenere che il nuovo elettorato della premier, sostanzialmente postideologico, sia estraneo alla biografia di una generazione che non riesce a superare il tormentato vissuto degli anni ’70-’80. Non lo segue la Lega, che in questo caso raccoglie un pezzo dell’eredità bossiana. Non c’è Berlusconi che, dal letto dell’ospedale, si riappropria del suo celebre discorso partigiano a Onna, il 25 Aprile 2009. Ha contro la buona borghesia milanese, rappresentata dalla figlia di un partigiano, Letizia Moratti. A destra, con un partito vecchio stile guidato da una leader pop, il tempo sembra essersi fermato. Anzi, rispetto alla svolta di Fiuggi, fa un passo indietro, come è costretto a constatare Fini. Un processo incompiuto in cui si cerca di combinare due formule che non si tengono: la normale dialettica di governo e la saldatura sentimentale con il suo zoccolo duro e con tutto ciò che ne deriva. Se la destra non si emancipa definitivamente, si condanna all’inattualità, spaiata rispetto alla società civile, trovandosi contemporaneamente al governo e nell’anomalia di una condizione esterna rispetto alla sensibilità costituzionale. Un territorio di nessuno: come ha concluso un recente studio scientifico sulla destra («Fratelli di Giorgia», di Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, edito dal Mulino), la generazione di Meloni è formata da «democratici afascisti». Compiere l’ultimo miglio per approdare ad una destra nazional-conservatrice, acquisita pienamente alla normalità democratica, farebbe bene a questo mondo, proiettato in breve tempo dai margini al centro della politica, e all’Italia. Sarebbe pure un buon risultato per lo stesso antifascismo.

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