Da profughi a clandestini
In mare si continua a morire
ma solo il Papa alza la voce

Papa Francesco denuncia l’esistenza di «lager» in Libia e utilizza la parola più evocativa e drammatica, proprio quella che gli scudieri di una Comunità internazionale travolta dall’oblio non vogliono che venga pronunciata.

Non è il solito ragionamento sui migranti, ma il dito puntato contro una violenza disumana, che la parola «lager» riassume nella sua nuda e tragica semantica. E non è neppure il solito appello, perché questa volta Francesco ha accompagnato le sue parole con un tweet nel suo account seguito da milioni di persone, nel quale sottolinea che tutti «dobbiamo sentirci responsabili».

Ci sono soluzioni come quella dei corridoi umanitari sollecitata ancora ieri dalla Comunità di Sant’Egidio che offrono l’unica speranza a chi ha bisogno di protezione in Libia in altre aree martoriate dai conflitti del Mediterraneo. Ma l’Unione europea finora non ha fatto quasi nulla pensando che sia sufficiente affidarsi a qualche associazione privata. Non basta e la Conferenza episcopale italiana lo ha denunciato, spiegando che l’Europa deve garantire, anzi pretendere, con interventi efficaci il rispetto dei diritti umani e la tutela delle persone. È esattamente quello che da anni in Libia non avviene. Ma nessuno alza la voce, se non il Papa. In mare si continua a morire. Le operazioni di salvataggio sono state progressivamente dismesse dall’Unione e anche dall’Italia. Navigano solo i vascelli dei soccorsi umanitari delle Ong, sempre più contrastate, sempre alla ricerca sfibrante di un porto sicuro dove far sbarcare gente allo stremo delle forze e qualche volta anche i cadaveri dei morti.

Siamo arrivati addirittura ad elaborare l’idea che possa essere legittimato il reato di solidarietà, capriola della ragione provocata dalla paura dell’invasione (che non c’è mai stata) dei clandestini. La stagione securitaria dell’immigrazione inaugurata con le legge Bossi-Fini del 2002 non è mai finita. Salviamo con difficoltà i migranti e poi li rimandiamo indietro nei «lager» libici. Abbiamo donato perfino motovedette ai guardiani di Tripoli.

Un disegno politico europeo sui migranti manca ancora e pochissime parole sono state spese per loro nei progetti di rilancio post-Covid. Ora che i soldi ci sono dovrebbe essere interesse dell’intera Unione affrontare in modo strutturale con pragmatismo e senza pregiudizi un fenomeno che assolutamente non vedrà la fine. Finché non si comporrà un nuovo mondo, finché il futuro non vedrà pace e soprattutto giustizia, finché ci sarà ancora qualcuno che verrà escluso e scartato, le migrazioni non si fermeranno. La Fondazione Migrantes e la Cei da trent’anni lo scrivono nei Rapporti annuali sull’immigrazione. Il fenomeno è mutato nel senso che è diventato più costante e oggetto, purtroppo, di tutte le dispute elettorali. In trent’anni abbiamo anche cambiato la semantica e assistito ad un’involuzione perfino lessicale.

Così da migranti e profughi siamo passati ai «clandestini», stigma inciso a lettere di fuoco sul loro corpo, sulle nostre coscienze, ma anche sulle nostre istituzioni, che troppo poco fanno per disinnescare l’aspra contrapposizione tra «noi» e «gli altri».

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