Democrazie sotto tiro, ma i motivi sono diversi

ESTERI. Si prestano a giudizi ambivalenti le crisi che si manifestano anche in modo violento - ultimamente in Francia e Israele - in quella parte (minoritaria) del mondo che un tempo si chiamava «libero».

Quelli ottimisti sottolineano che la risposta, non solo occidentale (vedi Giappone e Australia), all’invasione dell’Ucraina, ha smentito Putin, convinto della fragilità e inconsistenza dei sistemi liberali. Lo avevano incoraggiato la fuga dall’Afghanistan, la follia dell’assalto al Campidoglio sospinta da un presidente nelle ultime ore del suo incarico. Si è trovato di fronte un’Europa compatta, una Nato attrattiva mentre stava diventando solo burocrazia, Usa nuovamente legati alla Ue. Una lettura più preoccupata evidenzia invece che queste democrazie cominciano a scricchiolare, a perdere consenso identitario. Le piazze sono sempre più pericolosamente frequentate dalla radicalità, dall’abbandono del senso del limite e delle regole. In Campidoglio la folla entrava proclamando di essere padrona. L’incriminazione sta portando a Trump voti e finanziamenti…

Le sconfitte, nei fatti, del sovranismo anacronistico e del populismo irresponsabile, non cancellano la voglia di riscrivere la storia come perenne sopraffazione delle élite sul popolo. La democrazia liberale, dal canto suo, mantiene fermi i suoi fondamentali (pluralismo, tolleranza, Stato di diritto) ma - anche con comportamenti sbagliati - dà spazio ai suoi avversari, consegnandogli con le sue regole legittimamente il potere. Quale Europa avremo l’anno prossimo a Strasburgo? Se saremo ancora in guerra, una maggioranza diversa - carburata dalla «stanchezza» delle posizioni di principio - potrebbe speculare su questo logoramento, chiamandolo pacifismo. L’Europa segnala già molte incertezze (vedi da ultimo la Finlandia). La debolezza politica del socio più forte ed autorevole, la Germania, dipende da una coalizione poco coesa e proprio la legittimità democratica di un referendum sciagurato ha escluso dal circuito europeo il Regno Unito (mentre ne fanno parte Paesi con tentazioni autocratiche come Ungheria e Polonia) ma tornare indietro è complicato anche per i probabili futuri vincitori laburisti.

La Francia ha trovato con Macron l’innovazione istituzionale che gli altri sistemi politici europei non riescono ad esprimere, ma anche il presidente è ora condizionato da una maggioranza parlamentare ostile, e comunque è all’ultima prova al potere. Difficile dire chi ci sarà dopo di lui, e soprattutto quale sarà l’esito di questo esperimento liberal socialista, tecnocratico forse, ma certo più in sintonia con la nostra epoca di grandi cambiamenti. Proprio il caso francese ci aiuta peraltro ad orientarci meglio nell’interpretazione, perché solo in apparenza le barricate di Parigi e di Tel Aviv si somigliano. La Francia in subbuglio per una riforma pensionistica che riproduce in piccolo la nostra legge Fornero, ha di fronte un presidente, per l’appunto, che difende il diritto-dovere di cercare l’interesse generale, anche contro le resistenze. E non c’è dubbio che in una Francia, come l’Italia, in crisi demografica, il breve allungamento (programmato dal 2030) dell’età pensionabile è nell’interesse dei giovani, del futuro di un Paese che non debba pensare ai debiti ma ai programmi di vita dei suoi cittadini. Il presidente francese non è ancora uno statista e noi italiani siamo sempre pronti a godere delle difficoltà dei nostri cugini, ma sta tenendo duro come fanno gli statisti.

Diverso il caso di Netanyahu in Israele. Lì, la protesta popolare è contro un tentativo che l’unica democrazia mediorientale non può accettare: rinforzare in un Paese senza Costituzione la prevalenza della politica sulla Corte suprema. Qui sono i manifestanti che, tenendo duro, hanno difeso un principio basilare, e dunque in questo caso la piazza costruisce.

Insomma, la democrazia ha bisogno di governanti coraggiosi e di opinioni pubbliche responsabili. È su questi presupposti che il citato «mondo libero» può sperare di farcela. La precondizione è però quella di smetterla con l’antiparlamentarismo demagogico e con una agenda delle priorità sempre rivolta al passato.

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