Dilemma sanzioni e falchi sul Cremlino

La guerra in Ucraina ieri, di colpo, è tornata ad animarsi di notizie militari. La prima, e più clamorosa, è l’affondamento dell’incrociatore russo «Moskva», secondo gli ucraini per un loro missile ben piazzato, secondo i russi a causa di un incendio che avrebbe fatto detonare un deposito di munizioni a bordo. Probabile che siano state entrambe le cose: un missile che ha perforato la debole corazzatura dell’incrociatore e generato l’esplosione fatale.

Sarebbe qui interessante capire quale missile, perché il Neptune di cui dispongono gli ucraini non pare così micidiale, tanto che nei giorni scorsi il Governo inglese aveva appunto promesso a Zelensky armi anti-nave più moderne e potenti.

Questo lo scopriremo. Resta il fatto che per gli ucraini è una grande notizia. Priva i russi di una nave che garantiva alla Flotta del Mar Nero coordinamento, comando e avvistamenti radar (perché i missili, quelli veri, li lanciano altre navi, più piccole e moderne), rinsalda il morale delle forze ucraine e forse consente loro di distrarre qualche reparto dalla difesa di Odessa per inviarlo sul fronte del Donbass, dove tutti si aspettano una forte iniziativa russa. Nel novero delle notizie dal fronte mettiamo anche gli spifferi sulla sorte di Sergey Shoigu, il ministro della Difesa, che ieri si voleva colpito da un infarto. Da settimane si vocifera di una sua caduta in disgrazia agli occhi di Vladimir Putin e le sempre più rare comparse pubbliche del ministro non hanno fatto che confermarne la crisi. Non si sa nulla di preciso ma di certo a Mosca qualcosa bolle in pentola: dopo la nomina a responsabile unico delle operazioni del generale Aleksandr Dvornikov, un veterano della guerra di Siria, grava sul Cremlino un silenzio che sa di riorganizzazione al vertice e pare preludere a qualche colpo di scena.

Siamo tutti attenti a quanto accade in Ucraina ma una svolta vera, piena di possibili conseguenze, è già avvenuta nell’Europa del Nord, dove Svezia e Finlandia in un mese hanno rottamato la tradizionale neutralità e hanno annunciato l’adesione alla Nato. La Russia ha già risposto, annunciando la prossima dislocazione di armi atomiche sul Baltico, anche in questo caso violando un vecchio tabù. È interessante che l’annuncio, o la minaccia che dir si voglia, sia arrivata per bocca di Dmitrij Medvedev, un vecchio compagno di Putin (fu il direttore della sua prima campagna elettorale per le presidenziali, nel 2000) che negli ultimi anni era finito ai margini. Da Presidente e da primo ministro Medvedev si era fatto una fama di liberale morbido con l’Occidente, nelle ultime settimane è diventato un super-falco, aggressivo e intransigente. Perché una simile trasformazione? Sembra che Medvedev, assai più giovane del settantenne Putin, voglia accreditarsi per una successione presso gli ambienti del nazionalismo e del militarismo russi. Chissà. Come si diceva un tempo, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca.

Intanto la famosa coesione europea, com’era prevedibile, mostra qualche crepa. C’è un gruppetto di Paesi (Germania, Austria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, forse anche Estonia) che di rinunciare al gas russo non vogliono sentir parlare, perché pensano di non poterselo permettere. Sarebbe, come pensano molti, la sanzione delle sanzioni, l’arma finale. Sono numerosi, però, anche quelli convinti che sarebbe un’arma a doppio taglio. Come ha detto il primo ministro austriaco Nehammer, «le sanzioni dovrebbero fare male alla Russia, non a noi». Dopo quasi due mesi di guerra, quindi, la parola resta alle armi. Quelle che Zelensky chiede ogni giorno a gran voce.

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