Diplomazia vaticana
sempre al lavoro

Non si ferma neppure a Natale. La diplomazia di Papa Francesco lavora a pieno ritmo per contrastare il rullo compressore delle identità e dei settarismi e richiamare al contrario la solidarietà e la collaborazione attiva tra gli uomini che hanno a cuore le diversità che stanno sotto il cielo e il pluralismo delle loro rappresentanze etniche, religiose e politiche. È questo il significato della visita di quattro giorni in Iraq del segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin che ha passato il Natale a Bagdad, inviato da Bergoglio, e poi ha raggiunto il Kurdistan iracheno e oggi celebra la Messa a Qaeaqosh nella piana di Ninive, città martire per i cristiani perseguitati qui per due anni dai tagliagole dell’Isis. Il viaggio di Parolin è passato quasi inosservato sulla stampa internazionale, ma è un segnale importante alla Comunità internazionale circa la necessità le sfide che il dopo-Isis lascia sul campo, in primo luogo la convivenza delle diverse comunità.

Il Papa ha incontrato in Vaticano poco prima di Natale Nadia Murad, la ventunenne yazida, premio Nobel della pace di quest’anno, ex-schiava dei jihadisti con tutta la sua famiglia uccisa, diventata il simbolo del genocidio del suo popolo e insieme di un riscatto che nella latitudini inquiete del Medio Oriente non può che avvenire insieme popoli religioni.

Inviando Parolin a Bagdad Francesco si infila di nuovo dentro la Terza mondiale combattuta a pezzi, anche se oggi il fragore delle armi si sente un po’ meno, perché la soluzione che rischia di venir proposta come unica e migliore è quella di un rafforzamento delle mitologia tribale e di un consolidamento delle politiche identitarie che non si fanno scrupolo nemmeno di spostamenti di popolazioni e di scambio di territori per irrobustirle. Oggi la soluzione sembra essere quella di territori eticamente e religiosamente puri o purificati, sciiti di qua, sunniti di là, cristiani chissà dove, rendendo globale nell’area la giustificazione di quanto non si era ancora fatto finora con la teoria dello scontro di civiltà.

Il messaggio che si diffonde è proprio quello teorizzato al tempo della prima guerra del Golfo da Samuel Hantington con accanto la soluzione. Se è vero che nel post-guerra fredda la principale fonte di conflitto sono state le turbolenze etiche e religiose ecco la soluzione: rafforzare le identità e separare.

La Santa Sede si è sempre messa di traverso, prima con Giovanni Paolo II, poi con Benedetto XVI e ora con Francesco. Insomma ci si protegge solo insieme dal terrorismo di ogni natura, quello dei Califfati autoproclamati e quello di Stato di regimi vari, pronti a fornire un alibi ai primi, come è accaduto in Siria e in qualche caso in Iraq. La missione di Parolin propone invece una direzione contraria con tutta l’ostinatezza di cui è capace solo la diplomazia vaticana.

Il segretario di Stato in Iraq lo ha detto con perfetta chiarezza: «Come individui e comunità, cristiani e musulmani siamo chiamati a illuminare le oscurità della paura e del non-senso, dell’irresponsabilità e dell’odio con parole e atti di luce». E poi ha chiesto di accettare le persone con le loro diversità «non utilizzando tali differenze per metterci gli uni contro gli altri, ma scoprendo in esse una possibilità di arricchimento vicendevole».

Esattamente quello che le logiche del resto della Comunità internazionale intendono contrastare con la teoria del «male minore» che separa popoli e religioni, definisce un imbroglio il dialogo e preferisce sovranismi e identitarismi. Teoria sballata, che porterà altre sofferenze, perché, come diceva padre Paolo Dall’Oglio, «non c’è migliore protezione del buon vicinato».

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