Diritti sociali: Il Pd apre la difficile battaglia

ITALIA. Schlein, fase due. La segretaria del Pd ha deciso di cambiare spalla al fucile. Dopo la battaglia per i diritti civili, tocca ora a quella sui diritti sociali.

Sociologicamente parlando, potremmo dire che dall’attenzione rivolta ai cosiddetti «ceti medi riflessivi» il suo sguardo si sposta sui ceti popolari. Non più (solo) maternità surrogata ma anche, se non soprattutto, salario minimo. Il primo problema che presenta la proposta avanzata dal Pd di concerto col M5S e Azione di Calenda sono le incongruenze legate all’indicazione della soglia minima del salario a 9 euro indiscriminatamente su tutto il territorio nazionale. Vale a dire, per tutti e ovunque, a prescindere dal costo della vita (ben diverso tra Nord e Sud), dalla diversa tollerabilità della misura tra aziende ad alta o a bassa produttività, dai prevedibili contraccolpi sul mercato del lavoro, dalla sua inapplicabilità se risulta troppo alto o dal risultato paradossale di creare nuove povertà se si rivela troppo basso. C’è ovviamente da augurarsi che il Parlamento sia consapevole di tutte queste incongruenze.

C’è poi un secondo problema, a parte le incongruenze, non tecnico ma eminentemente politico, legato al disegno di legge in questione. Limitiamoci a considerare le implicazioni politiche della misura proposta. Se Schlein, Speranza, Fratoianni e Calenda vogliono evitare che il salario minimo faccia la stessa fine del Reddito di cittadinanza (una misura bandiera che non risolve il problema per cui lo si propone) devono prendere coscienza del cambiamento del contesto sociale e culturale in cui sono chiamati ad operare rispetto al passato. La rivoluzione tecnologica in corso ha sovvertito la figura del lavoratore tipo. Ha decretato la fine della centralità dell’operaio massa. Ha fatto scomparire l’idea stessa della classe operaia come soggetto protagonista della politica. Il mondo del lavoro si è scomposto in due. Da una parte ci sono i nuovi lavori legati alla tecnologia, divenuti individualizzati, competitivi, fluidi, che separano - invece di unire - il tessuto sociale, che disconoscono sia il valore della solidarietà che quello dell’eguaglianza, dal momento che affidano il loro futuro alle capacità dei singoli. Il contrario di quel che avveniva al tempo appunto dell’operaio massa. In epoca fordista il lavoro standardizzato creava le premesse per battaglie comuni orientate a realizzare l’uguaglianza.

Frammentato il nuovo lavoro tecnologico, ne risulta frammetato anche il nuovo lavoro a bassa o inesistente densità tecnologica. È la condizione dei lavoratori stagionali come i raccoglitori di pomodori o gli addetti alla vendemmia, dei dipendenti delle imprese di pulizia, delle badanti, dei rider, degli immigrati senza permesso di soggiorno. Per queste figure di lavoratori, privi di una qualificazione, la condizione di vita stabile è la marginalizzazione, lo sfruttamento, la ricorrente disoccupazione. Il che si traduce in un potere contrattuale praticamente nullo. Parlare di salario minimo vuol dire rivolgersi a questo segmento di lavoratori perennemente in bilico tra disoccupazione e salari sottopagati. È un mondo polverizzato che non può assolvere allo stesso ruolo politico di avanguardia del progresso umano che fu della classe operaia.

In parole povere, il Pd versione Schlein non può illudersi di sostituire gli operai con «i nuovi poveri». Affiderebbe il rilancio del primo partito dell’area progressista non alla parte più dinamica della società, che si conferma il motore del cambiamento, ma agli esclusi, ai marginalizzati, ai (purtroppo) perdenti della nuova «civiltà tecnologica». Salario minimo sì, nuovi poveri al posto della classe operaia no.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA