È un dovere custodire lo spirito di un genio

ITALIA. Sul nome e sull’opera di Giacomo Manzù, uno tra i più grandi scultori del Novecento, rischia di cadere l’ombra dell’oblio.

La vendita della tenuta di Aprilia, alle porte di Roma, dove l’artista bergamasco si era ritirato per plasmare molte delle opere oggi ospitate nei musei di tutto il mondo (l’ultima acquisizione è degli «Uffizi» di Firenze), non farà che accelerare inesorabilmente il tramonto sulla figura e sull’opera di un maestro che, modellando della semplice creta, ha saputo rendere visibili sentimenti ed emozioni che scuotono l’intima essenza della nostra coscienza: amore e morte, sacro e profano, libertà e dignità, sapienza ed insipienza.

Da decenni il legame tra Bergamo e Manzù è come sospeso a mezz’aria, mai reciso fino in fondo, mai rinsaldato con tenacia e convinzione. Sembra quasi che la ruvida e spigolosa essenza dello scultore - così tipicamente bergamasca - non sia mai stata completamente metabolizzata dalla città, che riconosce la grandezza dell’artista, ma lo fa tiepidamente, dando l’impressione che davvero nessun profeta è gradito nella propria patria. Le notizie che arrivano dall’Agropontino non possono che rilanciare una vecchia idea che Bergamo (almeno a parole) accarezza da tempo, ma sulla quale non si è mai spesa più di tanto, quella cioè di «riportare a casa» la collezione di opere d’arte (o almeno una parte) che lo scultore aveva donato nel 1979 allo Stato italiano e custodite nel museo di Ardea. Nel 2021, Provincia di Bergamo, Comune di Ardea e Ministero dei Beni culturali avevano firmato un accordo per la valorizzazione dell’opera del maestro (fatta anche di scambi di sculture e mostre temporanee), ma complice la pandemia provocata dal Covid non se n’è fatto più nulla.

È vero che in vendita c’è la villa e l’atelier del maestro (intatto, almeno su questo un vincolo ci potrebbe stare) e non il museo, ma perché non cogliere l’occasione per ridare fiato alla vecchia iniziativa e portarla fino in fondo una volta per tutte? «Donare queste opere alla comunità - disse il maestro inaugurando il museo, oggi poco frequentato e poco valorizzato - è stato come donarle a me stesso: gli altri hanno diritto di vederle almeno quanto me». Perché allora non prenderlo in parola, chiudendo degnamente l’anno di Bergamo Capitale della Cultura (che allo scultore bergamasco, infatti, non ha dedicato nulla)? E perché non tornare a far «sentire» a Manzù il suono delle campane di Sant’Alessandro, a lui così care? Perché non riportarne anche le spoglie, assecondando il desiderio della moglie Inge? Al Famedio del «Monumentale» una lapide dedicata a Manzù c’è già, e il Comune si è detto più volte pronto ad esaudire la richiesta (sebbene mai formalizzata), senza contare che anche la Fondazione Mia si è sempre mostrata disponibile ad accogliere i resti dello scultore in Santa Maria Maggiore, dove riposano Gaetano Donizetti e Simone Mayr.

Nel breve percorso museale «diffuso» tra le vie della città, spicca, nei giardini di Porta Nuova, «Il monumento al partigiano». Ma quello scolpito «nell’aria» da Giacomo Manzù non è «solo» un partigiano. È un marito, un fratello, un figlio… È l’umanità lacerata dal dolore e dalla sofferenza, trafitta dalla guerra e dalla tortura, umiliata dalla cattiveria e dal pregiudizio, uccisa dalla menzogna e dalla indifferenza. È l’umanità dolente verso cui la pietà fatta donna tende dolcemente una mano, in un atteggiamento di compassione e di misericordia che la nostra società sembra ormai aver smarrito, come se non le fosse mai appartenuto, come se non le fosse necessario per tenere alto il grado di civiltà che dovrebbe contraddistinguerla. «Il monumento al partigiano» è in realtà una splendida «Pietà» laica, che nell’eleganza dei gesti e nella gravità del momento richiama il mistero della morte e dell’abbandono al dolore che Michelangelo ha scolpito nella maestosa «Pietà» che porta il suo nome, e che con lo scultore bergamasco già dialoga attraverso la magnifica «Porta della Morte» che segna il «confine» tra il dentro e il fuori della Basilica vaticana di San Pietro. E non solo quello...

In Manzù c’è il genio dell’animo e dell’anima, ed è a questo che Bergamo deve guardare. Non è in discussione se la città abbia o meno bisogno di un nuovo museo (quale sarebbe poi il discrimine che fa pendere per un sì o per un no? Il numero di possibili visitatori? Il costo della sua realizzazione o del suo mantenimento? Quanto fatturato è in grado di produrre in un’ora?), ma la capacità di fare memoria di un grande bergamasco e della sua eredità non solo artistica, non solo materiale, ma anche - se non soprattutto - culturale e spirituale.

Come questo giornale ha già scritto, riportare a casa Manzù e le sue opere ha il significato profondo di chiudere una volta per tutte quel «conflitto interiore» tra il grande genio e la sua Bergamo, che per anni sono stati distanti nella «forma» ma mai nella «sostanza». È un modo «per accarezzare sulla fronte» un grande figlio di questa terra e tornare a fargli riassaporare quell’«aria della sera» che impedisce a ciascuno di noi di volgere lo sguardo altrove passando davanti a quel «partigiano» che Manzù ci ha voluto regalare tanti anni fa. Glielo dobbiamo.

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