Elisabetta II, il simbolo di stabilità in un mondo tumultuoso

Lo scriveranno tutti ma è inevitabile: con la scomparsa di Elizabeth Alexandra Mary di Windsor, dal 6 febbraio del 1952 regina Elisabetta II del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e degli altri reami del Commonwealth, nonché capo della Chiesa d’Inghilterra, se ne va l’ultimo grande personaggio del Novecento. Come Mikhail Gorbaciov, poco più giovane di lei, scomparso pochi giorni fa. Ma, se riusciamo a sollevarci sopra i bilanci politici più sentimentali e istintivi, assai più di lui e di quasi tutti i grandi nomi che ci vengono in mente.

Elisabetta II, è cosa nota, è stata la regina dei record. Il suo è stato il regno più lungo della storia britannica (aveva polverizzato il record della regina Vittoria già il 9 settembre 2015) e il secondo della storia del mondo, dopo quello del francese Luigi XIV, il mitico Re Sole. Era il capo di Stato in carica da più tempo e in quella veste aveva visto passare la bellezza di 15 primi ministri. L’ultimo, la terza donna nella storia di Downing Street, Liz Truss, l’aveva accolto nel castello di Balmoral proprio poche ore prima del malore fatale. Non male per una ragazza incoronata a 26 anni e diventata regina per l’insofferenza dello zio Edoardo VIII, che al trono preferì l’americana Wallis Simpson, cedendo il posto al fratello Giorgio VI, padre appunto di Elisabetta. Ricorderemo per questo, certo, ma alla fine non proprio per questo. E nemmeno resterà nella memoria la tale o talaltra sua iniziativa politica. L’unicità di Elisabetta II non è nell’aver fatto una «cosa» ma nell’averle accompagnate tutte con un marchio di compostezza, stile e resistenza (molto inglese, e anche questo lo diremo tutti) che ha fatto di lei un eccezionale simbolo di continuità e stabilità.

Pensiamoci per un attimo. Il castello di Balmoral, dove è morta, è lo stesso dove era stata evacuata allo scoppio della seconda guerra mondiale. Aveva 21 anni quando, accompagnando i genitori in un viaggio ufficiale in Sudafrica, fece il suo primo «discorso alla nazione», promettendo di mettersi «al servizio della grande famiglia imperiale alla quale tutti apparteniamo». E ne aveva 39 quando trasformò i Beatles in baronetti, ovvero in membro dell’Ordine dell’Impero Britannico. È stata la regina del premier Winston Churchill e del suo lontano successore Boris Johnson. Era salita al trono per «merito» di una pluridivorziata come la Simpson, che si era presa lo zio regnante, e si è trovata a gestire lo sfacelo del matrimonio del figlio Carlo con Diana Spencer e le convulsioni di una famiglia che ha prodotto più scandali e mattane di quanto convenisse a una famiglia reale. È stata madre assai giovane (Carlo è del 1948) di quattro figli ma è riuscita a galleggiare sull’evoluzione dei costumi senza sembrare mai vecchia o superata ma, piuttosto, superiore.

Naturalmente, in una vita privata e pubblica così lunga, è stata più volte data per superata, se non per finita. Un esempio per tutti. La fine orribile di Diana, nel 1997, il lutto mondiale e il mito della «principessa incompresa e infelice» che ne derivarono, riuscirono in effetti a farla vacillare. Lei, che aveva imposto ai familiari giorni e giorni di rinuncia alle apparizioni pubbliche e non aveva voluto abbassare a mezz’asta la bandiera a Buckingham Palace, fu costretta a tornare a Londra ma riuscì a pronunciare parole (chissà quanto sentite) di stima per Diana e di vero affetto per i nipoti, che lasciarono il segno. Nel 2002 arrivò il Giubileo d’Oro, ovvero il cinquantesimo anniversario della sua ascesa al trono. I giornali inglesi pronosticavano un fallimento e invece fu uno straordinario successo, scaldato dall’affetto degli inglesi. Fu un anno di lutti per Elisabetta: morirono sua sorella Margaret e la Regina Madre. Ma regine si nasce ed Elisabetta, quasi a ricordare i primi passi giovanili di cui dicevamo, non rinunciò a un lungo viaggio nei Paesi del Commonwealth, la «grande famiglia imperiale» che le scorre nel sangue.

Milioni di altre cose si possono dire di Elisabetta II. Ma ogni pagina della sua monumentale biografia trasmette il desiderio di essere un elemento di coesione e di continuità nel mutare spesso tumultuoso dei tempi. Adattandosi a loro. E quindi, quasi senza parere, adattandoli a una serie di valori tanto più importanti perché vissuti senza proclami e senza retorica, e tanto più solidi perché poco intimoriti dai sussulti della cronaca.

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