L'Editoriale
Martedì 24 Maggio 2022
Falcone, eredità da raccogliere
La memoria corre a 150 chilometri orari, insieme alla Fiat Croma bianca blindata, lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi. Giovanni Falcone aveva voluto mettersi alla guida, quel 23 maggio di trent’anni fa. Accanto, la moglie Francesca Morvillo. L’autista Giuseppe Costanza – che alla fine si salvò – fu invitato dal magistrato ad accomodarsi sul sedile posteriore. Corsia di sorpasso, vietato rallentare: sono le procedure di sicurezza. Davanti e dietro, le auto con gli agenti della scorta. A pensarci bene, quegli ultimi dieci minuti con l’acceleratore premuto sono un po’ la metafora della vita del magistrato che cambiò l’Italia.
La strada della lotta alla mafia era (ed è oggi) come il maledetto rettilineo di Capaci: un pugno di chilometri d’asfalto da cui, cominciato il viaggio, è impossibile deviare. «Si deve saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti chiamiamola incoscienza», diceva Falcone. Non a caso il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha scelto questa, tra le frasi del giudice, per ricordarlo ieri nella cerimonia di Palermo. Ore 17.56 e 32 secondi: quel boato che costò la vita a Falcone, alla moglie e agli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, gettò l’Italia nello sgomento. Ma allo stesso tempo costrinse un intero Paese a «salire» sulla collinetta da cui Giovanni Brusca azionò il telecomando mortale, e a guardare giù, dentro il cratere dove la mafia ci voleva seppellire tutti. Fu un po’ come guardarsi dentro.
«Il dolore e lo sgomento di quei giorni – ha detto il Capo dello Stato – divennero la drammatica occasione per reagire; a quella ferocia la nostra democrazia si oppose con la forza degli strumenti dello Stato di diritto». Quelle di Falcone furono «visioni lucidamente profetiche», non ha mancato di sottolineare Mattarella, e come spesso accade alle avanguardie «non furono sempre comprese». Come quella volta in cui trovarono una valigetta di esplosivo fuori dalla sua casa di villeggiatura e ci fu chi insinuò che ce l’avesse messa lui, per fare carriera. In taluni casi le sue «visioni» furono «osteggiate» persino dall’interno, da «atteggiamenti diffusi nella stessa magistratura», parole di Mattarella. Come quella volta in cui, nel 1989, per l’incarico di guidare l’Ufficio Istruzione di Palermo gli fu preferito dal Csm un collega con più anzianità.
Se l’Italia oggi è cambiata è merito di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Leggi mirate, affinamento della capacità investigativa, ma soprattutto un movimento culturale che ha animato il Paese da Sud a Nord – di cui instancabile testimone fu Antonino Caponnetto, già a capo del pool di cui fecero parte Falcone e Borsellino, e che in Falcone aveva visto il suo «erede» naturale – hanno inferto duri colpi alla mafia. Ma attenzione: a «quella» mafia. La guerra infatti non è finita, perché la criminalità organizzata ha saputo mutare. Per dirla con parole d’oggi, adesso circola la variante Omicron della mafia delle origini. Meno plateale, più subdola: al «pizzo» preferisce il riciclaggio di denaro, ha deposto le lupare per compilare le fatture false, gli F24 hanno rimpiazzato il tritolo. Criminalità economico-finanziaria, riciclo di denaro sporco e traffico di droga sono gli asset della «mafia» di oggi. Anche al Nord, e pure nella Bergamasca, terra ricca, che attrae. La criminalità organizzata dalle nostre parti offre servizi alle imprese in crisi: iniezioni di liquidità, recupero crediti, emissione di fatture per operazioni inesistenti per poter «compensare» i debiti con il fisco. Una sorta di «evasione fiscale organizzata». Ci sono poi le estorsioni aggravate dal cosiddetto «metodo mafioso»: l’inchiesta «Papa», che in uno dei filoni ha già portato condanne anche in Appello, ne è un esempio.
Il «vaccino» contro ogni variante della criminalità organizzata dev’essere perciò adeguato ai tempi: all’ingrediente base di una diffusa cultura della legalità – partendo dalle scuole - si devono sommare nuovi strumenti investigativi efficaci. Abbiamo ancora negli occhi l’immagine di Falcone e Borsellino che condividono informazioni sulle loro indagini, chini sui fascicoli, nella penombra di un ufficio, divisi solo da un posacenere pieno. La trasposizione in chiave moderna di questo quadro romantico si chiama digitalizzazione dei fascicoli, condivisione delle informazioni tra pool investigativi, potenziamento degli organici specializzati. Sì, perché una cosa è certa: alla criminalità organizzata fanno più male i sequestri milionari delle manette ai polsi. La Procura di Bergamo, negli ultimi anni, ha incrementato le richieste di sequestro per reati finanziari: 278 milioni in un anno nel 2021, il quadruplo del periodo precedente. Non è un caso. Nella Bergamasca ci sono ancora 112 immobili confiscati da assegnare e far rivivere a vantaggio della società civile. Anche questo vuol dire raccogliere l’eredità di Falcone e Borsellino. Lo ha ricordato Mattarella: «Affrontare, con la stessa lucidità, le prove dell’oggi».
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