Fine vita e omofobia
L’ideologia fa male

La sentenza della Corte d’assise d’appello di Genova che ha confermato mercoledì 28 aprile l’assoluzione di primo grado per Mina Welby e Marco Cappato dall’accusa di assistenza al suicidio verso Davide Trentini, malato di Sla e morto in un clinica svizzera quattro anni fa, non chiude, ma apre di nuovo il dibattito sul fine vita, la cura e la protezione delle persone. Tuttavia è una di quelle questione etiche sulle quali il legislatore ha purtroppo sempre preferito fin qui non inoltrarsi, impaurito da una materia troppo complessa da affrontare con serenità in tempo di meccanismi mediatici governati dai social, che scivolano drammaticamente verso scontri populisti e ideologici. Eppure andrà fatto. Ieri Marco Cappato dopo la sentenza ha aperto il fronte chiedendo ora «regole certe» sulla «legalizzazione dell’eutanasia» di cui l’assistenza al suicidio assistito è solo un capitolo. La Corte costituzionale ha già sollecitato il Parlamento ad occuparsene proprio per evitare che la partita finisca sempre e solo in mano ai giudici dei tribunali. Ma ecco il punto. Il Parlamento sarà in grado di farlo e farlo bene?

L’opinione di alcuni che non si tratta di una priorità nel pieno di una crisi economica e sociale per via della pandemia è un ritornello ormai deteriorato. La sentenza d’appello di Genova, come ha osservato abilmente Cappato, può stabilire un precedente che rischia di diventare una valanga, aprire all’anarchia, ma soprattutto aumentare la pressione su persone già sofferenti. La domanda che la società intera e quindi anche il legislatore deve porsi è invece cosa serve di più: l’aiuto a morire o l’accompagnamento, cioè affetto, vicinanza e assistenza, a chi muore, facendo di tutto per garantire che il minor numero di persone possibile esprima il desiderio di un suicidio assistito? In caso contrario saranno le aule dei tribunali gli unici luoghi dove si discuterà di tutto ciò con grave danno alla democrazia. Sui temi che riguardano la protezione delle persone non si può delegare alle autorità amministrative e la riserva di legge dovrebbe essere assoluta. La questione del fine vita è uno di questi, come lo è la questione della discriminazione e delle violenze di genere, realtà brutale e dai molti volti, novellata nella legge sull’omofobia approvata dalla Camera l’anno scorso e ora in discussione al Senato, tra polemiche, veti e richieste di maggior approfondimento. Anche in questo caso c’è il pericolo, a causa di un testo pasticciato, scritto male e aperto a troppe interpretazioni ideologiche, di lasciare troppo ampia discrezionalità alle sentenze dei tribunali.

Ieri la Cei ha chiesto di prestare maggiore attenzioni alle «ambiguità interpretative» per evitare di contrastare la «discriminazione» con l’«intolleranza», cioè la censura di pure e semplici opinioni come quelle di chi nutre dubbi sulle coppie gay o sulla maternità surrogata. Ciò non significa che una legge contro l’omofobia non sia necessaria, ma significa solo che essa deve essere più condivisa per evitare interpretazioni controverse. Di fronte a questi ragionamenti sembra che il Parlamento ancora una volta abbia paura. Da un lato c’è chi alza la voce e chiede al Senato l’approvazione fotocopia della norma così come è uscita dalla Camera. Dall’altro c’è chi preferisce lavarsi le mani insabbiando la questione. La centralità del Parlamento è sempre la vera posta in gioco, perché se ci sono tanti e troppi dubbi sul testo di un provvedimento essi non si affrontano depotenziando il legislatore. Sarebbe come certificare l’onnipotenza di una politica cattiva, che non sa affrontare e anzi fa soccombere le istanze della società civile qualunque esse siano.

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