Governance globale frammentata

MONDO. Commentando la conclusione del G20 svoltosi a Nuova Dehli,
la maggior parte degli osservatori si è concentrata sulla «debolezza» del comunicato finale relativo alla crisi ucraina, in cui non si cita la Russia, non si parla di aggressione né di invasione ma ci si limita a ri-proclamare che tutti gli Stati dovrebbero «astenersi da qualunque azione contro l’integrità territoriale,
la sovranità e l’indipendenza politica di qualunque altro Stato».

E si è fatto notare che il G20 precedente, quello di Bali, aveva chiuso i lavori parlando di «aggressione della Federazione Russa nei confronti dell’Ucraina». Non a caso i portavoce del presidente ucraino Zelens’kyj, già furibondo per essersi visto rifiutare dall’India un invito al summit, hanno sparato a palle incatenate sul comunicato, considerato invece un successo dalla diplomazia russa.

Concentrandosi sull’albero, però, si rischia di perdere di vista la foresta. Intanto, sul tema Ucraina qualche scricchiolio si era avvertito già a Bali, dove il G20 riconobbe che l’affermazione sull’aggressione russa era condivisa «dalla maggior parte» dei Paesi, quindi non da tutti. Ma soprattutto, si rischia di scambiare l’effetto con la causa: il debole comunicato finale sull’Ucraina potrebbe, con il suo evidente intento di metter d’accordo tutti su una dichiarazione di mero principio, aver salvato il G20 o almeno aver mascherato le sue attuali difficoltà, rinviando al futuro (il prossimo, nel 2024, si svolgerà a Rio de Janeiro) una più franca discussione sul senso e sulle finalità di questo forum mondiale. Dove tra l’altro entrerà in vigore la partecipazione dell’Unione Africana, che rappresenta 55 Paesi e dunque porterà al convegno dei Paesi sviluppati e in via di sviluppo un contributo di idee nuove ma, in potenza, anche un ulteriore elemento di divisione.

La realtà che il G20 indiano ha in qualche modo consacrato è quella di un’ulteriore frammentazione della governance globale. Il primo summit si svolse nel 1999 a Berlino, tornata a essere capitale della Germania riunificata e simbolo di un’Europa che credeva di aver imboccato una via nuova, l’ultimo nella capitale di un’India rampante e decisa a sedersi al tavolo dei grandi. Già la geografia ci segnala uno spostamento dei pesi e degli interessi di cui, con l’arrivo dell’Unione Africana e il rafforzamento di altre piattaforme internazionali (Brics, Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), non si può non tener conto. Ma soprattutto non era mai successo, da Berlino a ieri, che un G20 si chiudesse con accordi al ribasso e di compromesso in tutti i gruppi di lavoro, dall’ambiente all’economia.

La guerra in Ucraina, ovviamente, è una delle cause. L’invasione russa, scatenata dal Cremlino allo scopo dichiarato di incrinare o rovesciare gli equilibri internazionali finora esistenti, e la risposta occidentale, tutta tesa a isolare la Russia con i suoi progetti, hanno da un lato polarizzato le posizioni e dall’altro invogliato molti Paesi a sfruttare la situazione. Lo ha dimostrato il premier indiano Modi, che con Joe Biden ha firmato un comunicato di totale sintonia e poi si è intrattenuto con grande calore con il ministro degli Esteri russo Lavrov. L’India si sente abbastanza forte, in questa contingenza, da evitare di scegliere tra il partner tradizionale che la sostiene nella gara con l’India, gli Usa, e la Russia che, con materie prime a prezzo ribassato (il 40% del petrolio indiano lo fornisce Mosca), procura il carburante al motore del suo sviluppo.

Non è un caso, quindi, se il G20 nelle ultime edizioni si è segnalato soprattutto per la vasta messe di incontri bilaterali, come quello appunto tra Modi e Biden o, per restare più vicini, quello tra Giorgia Meloni e il primo ministro cinese Li Qiang, mandato dall’assente Xi Jinping a Nuova Delhi con la missione di fare il Signor No soprattutto sulle questioni dell’ambiente e dei limiti alle emissioni a effetto serra. Il G20 è un summit globale e soffre di problemi globali. Nulla di strano in questo, e forse nulla di irreparabile. Ma un tema su cui varrà la pena di riflettere mentre ci si appresta al trasloco verso il Brasile e l’America del Sud, altra periferia del mondo (per dirla con Papa Francesco) che reclama un posto in centro.

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