
L'Editoriale
Giovedì 16 Ottobre 2025
I giovani in piazza, sorpresa positiva
ITALIA. Nelle manifestazioni per la pace che hanno animato e agitato strade e piazze di molte città è stata palese la presenza di giovani e giovanissimi/e. Non è invero una novità, perché già tale protagonismo si era espresso, ad esempio, nei cosiddetti scioperi per il clima, ispirati da Greta Thunberg.
Anzi, questi fronti paiono collegati in un’interessante logica di intersezionalità (non settorialità) delle «battaglie» politiche. Questo dato non è nemmeno solo italiano: un recente studio dell’Ispi ha documentato come tale partecipazione giovanile («la rivolta della generazione Z», «senza leader né partiti») abbia dimensioni globali. Occupandomi da decenni di formazione socio-politica, mi sono spesso imbattuto in commenti critici verso la presunta passività e indolenza politica dei giovani, liquidati come «bamboccioni» disimpegnati. Questo rigoglio di vivacità giovanile dovrebbe allora sorprenderci positivamente. Eppure spesso non è così e non mancano critiche, che reputo ingenerose, se non ingiuste. Si invocano i giovani, ma poi, quando questi - a modo loro - prendono la parola o si mettono in azione, prevalgono fastidio o paura.
Si invocano i giovani, ma poi, quando questi - a modo loro - prendono la parola o si mettono in azione, prevalgono fastidio o paura
Una prima critica che si rivolge loro è che sarebbero politicizzati. Se questo significa che si occupano di politica, ben venga. Non è forse quello che si voleva? Se invece si allude al fatto che sarebbero espressione partitica, mi chiedo: quale partito, in Italia e in Europa, sarebbe in grado di mobilitare così tanti giovani? I giovani esprimono piuttosto una sensibilità politica che coniuga un diffuso disgusto riservato ai partiti, considerati assenti e attenti solo al potere, con la disponibilità a farsi coinvolgere ed appassionare dalla concretezza delle sfide. Questo è un punto frequentemente segnalato dai sociologi: i giovani si possono interessare alla politica solo a partire da questioni che appaiono loro concrete. E, come si vede, concretezza non significa piccolo cabotaggio. Grandi questioni ideali (la pace, la giustizia e l’ambiente) hanno fortissimi legami con la concretezza quotidiana e con la carne di popoli e persone. In una Costituzione, come la nostra, che fonda la democrazia sul lavoro, i partiti non possono reclamare il monopolio della partecipazione, che si esprime nella ferialità dei rapporti sociali, economici e politici. Toccherebbe ai partiti cercare - se lo vogliono - un rapporto (non strumentale) con le istanze che vengono sollevate.
Il conflitto è una forma di partecipazione ed è il volto che il pluralismo strutturalmente manifesta, perché vi trovano voce soggettività che non hanno spazio e giustizia nell’ordine costituito
Un’altra critica (o paura) frequente è che queste proteste coverebbero la violenza. Molti si lasciano impressionare dai modi, dall’impatto forte, di queste manifestazioni e certo alcune espressioni distruttive non sono mancate, pur obiettivamente minoritarie (e sicuramente da condannare). Il punto è che non si deve confondere il «conflitto» con la «violenza». Le proteste giovanili hanno sicuramente messo in scena espressioni di conflitto, che nascono da domande di giustizia e di riconoscimento che l’attuale ordine politico-giuridico interno e internazionale evade o reprime. Il conflitto è una forma di partecipazione ed è il volto che il pluralismo strutturalmente manifesta, perché vi trovano voce soggettività che non hanno spazio e giustizia nell’ordine costituito.
La violenza, di cui la guerra è la più tragica incarnazione, è invece la negazione del conflitto: essa è il rifiuto di assumere la domanda di riconoscimento e di fare i conti con la pluralità; è la pretesa di risolvere il contrasto con la distruzione dell’alterità. Non a caso, la guerra porta a disumanizzare l’altro.
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