Il coraggio di credere nel riscatto dei carcerati

La decisione di creare un polo universitario penitenziario a Bergamo è coraggiosa per vari motivi. Scommettere sulla rieducazione del condannato permettendogli di accedere al livello più alto di istruzione è una scelta che può sembrare controcorrente, ma che non solo è ben radicata nel solco costituzionale, ma anche nella storia del nostro territorio.

L’Università di Bergamo e la Casa circondariale «Don Fausto Resmini» hanno una lunga storia di collaborazioni alle spalle. I corsi del professor Ivo Lizzola, ma anche l’attività di Carcere e territorio, il volontariato, i docenti del Cpa e dei vari corsi professionali e tecnici che si sono avvicendati negli anni, hanno segnato in modo indelebile il carattere del carcere di via Gleno, contribuendo alla credibilità dell’istituzione anche nei momenti più difficili.

C’è un filo rosso che unisce il giudice Giancarlo Zappa, presidente del tribunale di Sorveglianza negli anni Ottanta e Novanta, l’uomo che riuscì a dialogare e a mettere sulla strada del reintegro in società gli ex terroristi di Prima Linea, a don Fausto Resmini, l’indimenticabile cappellano del carcere, strappato troppo presto al suo mondo di ultimi dal Covid nel marzo 2020: è la speranza nell’uomo e nella sua capacità di cambiare. È ciò a cui punta anche la Costituzione: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato (art.27).

Non è un concetto diventato patrimonio del senso comune, almeno non nel nostro Paese. Il primo provvedimento del governo appena insediato è stato quello di far sì che l’ordinanza della Consulta che dichiarava incostituzionale l’ergastolo ostativo non diventasse sentenza esecutiva. Non è qui la sede per entrare nel merito del dibattito. Ci basta ricordare che l’ergastolo ostativo è la pena senza nessun tipo di beneficio o sconto, concessi normalmente a chi viene condannato se dimostra di seguire un percorso riabilitativo. E che gran parte dei condannati all’ergastolo in Italia sono sottoposti a ergastolo ostativo. L’Università di Bergamo è entrata a far parte della rete di atenei che aprono le porte ai detenuti (sono 34 in tutta Italia, l’organismo che li riunisce è recente, del 2018, nonostante la legge preveda l’insegnamento universitario ai detenuti almeno dalla metà degli anni ‘70) e si impegna a fornire insegnamento agevolato a questa particolare categoria di iscritti. Quindi tutor, materiale ad hoc, studenti che possono affiancare i loro colleghi reclusi. Un impegno non indifferente per un numero esiguo di interessati, come ha ricordato il rettore Sergio Cavalieri. Nel report di quest’anno risultano 1.246 iscritti in tutta Italia, su un totale di detenuti di 56.225. Ma le proporzioni non devono stupire, in una popolazione, quella carceraria, che per il 90% ha alle spalle percorsi scolastici difficili e semianalfabetismo. Offrire la possibilità di iscriversi all’Università a questo piccolo spicchio di mondo è forse il modo migliore, anche se appannaggio di pochi, per tendere una mano a chi sta cercando di rialzarsi.

Così si esprimeva l’organo dei poli universitari penitenziari all’indomani dei gravi fatti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, l’anno scorso, quando decine di detenuti furono sottoposti a violenze: «Ci ispira la convinzione, fondata su ormai numerose esperienze, che chi esce dal carcere tanto più potrà evitare di ritornarvi quanto più abbia trovato in esso opportunità e relazioni che rendano possibile un percorso di maturazione e consapevolezza, acquisendo strumenti per progettare il proprio futuro. Solo operando in questo senso, peraltro, si garantisce maggiore sicurezza alla società intera».

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