Il fattore Europa
Partiti ondivaghi

La pandemia non ferma la corsa al voto in Germania, Paese leader dell’Europa, mentre sono in corso manovre, in superficie e sotterranee, All’Europarlamento dove tre partiti sono in cerca di una nuova casa: Lega (28 parlamentari), 5 Stelle (10) e destra radicale ungherese di Fidesz (12). Tutto questo ci riguarda da vicino e i risultati delle combinazioni, nell’anno dell’arrivo di Biden alla Casa Bianca e della definizione della Brexit, diranno qualcosa di significativo sull’azione di contenimento del nazional populismo. A partire da quel che sta avvenendo con l’esecutivo Draghi, la cui ricaduta politica potrebbe fare dell’Italia il laboratorio europeo della metamorfosi dei partiti antisistema dopo averli portati insieme al governo. Domani in Germania, che sta conoscendo come l’Italia la lentezza delle vaccinazioni e il prolungamento delle misure restrittive, inizia l’anno elettorale che termina con le Politiche il 26 settembre e con l’uscita di scena, dopo 14 anni, di Angela Merkel.

Si inizia in due Laender chiave, Baden-Wurttemberg e Renania-Palatinato, e da qui all’autunno toccherà ad altri 4 Stati-Regione. Un test per i due principali partiti, democristiani e socialdemocratici, la verifica della cura Merkel per contrastare l’estrema destra (per la prima volta in Parlamento), un esame per i Verdi, formazione emergente e che, in teoria, potrebbero sostituire nel prossimo futuro i socialdemocratici nella coalizione con la Cdu della cancelliera. La Germania, dunque, vive una delicata fase di transizione che si ripercuote anche a livello comunitario e a cascata sui sistemi politici. Molto dipenderà dalla direzione di marcia del partito democristiano (e dei cugini bavaresi) che con la Merkel ha sterzato al centro, creando un cordone sanitario sulla sua destra: salvo sorprese, compreso qualche infortunio elettorale, la continuità moderata dovrebbe essere garantita dal nuovo leader della Cdu, Armin Laschet.

La conferma è venuta da come la Cdu, che guida i Popolari all’Europarlamento, ha gestito il dossier Orban, cioè il premier ungherese della destra identitaria e teorico della «democrazia illiberale», il cui Paese è sotto infrazione all’Ue per violazione dello Stato di diritto. Orban, per evitare di essere espulso dalla famiglia dei Popolari, il «salotto buono» di Bruxelles, se n’è andato, creando così un duplice effetto: è diventato l’oggetto del desiderio di una parte della politica europea e potrebbe sparigliare i rapporti di forza delle due destre, quella radicale di Marine Le Pen e quella dei conservatori di Giorgia Meloni. L’opzione Orban ha rivelato di nuovo l’anello debole, il gioco acrobatico di Salvini intenzionato a creare un nuovo gruppo europeo con la destra ungherese e con quella polacca che però fa parte dei conservatori. Una Lega che si fa in due: a Roma sta con Draghi e con Giorgetti in ruoli strategici, a Strasburgo e a Bruxelles va in libera uscita. Salvini ha il problema di lasciare il ghetto in cui s’è cacciato entrando nel sodalizio con la Le Pen e l’estrema destra tedesca, nemica giurata della Merkel, ma l’ipotesi di un ingresso nei Popolari (al quale da tempo sta lavorando Giorgetti) è più difficile del previsto. Primo, perché la Lega nel Partito popolare diventerebbe il secondo gruppo, quasi incollato ai democristiani tedeschi e bavaresi.

Secondo, perché la Merkel, tamponata la falla a destra, non può perdere voti sul fianco sinistro con il sodalizio leghista. Per il capo della Lega questa faccenda europea è al contempo un derby molto italiano con la destra sovranista della Meloni, la quale ha già detto come la pensa in questa competizione che era nell’aria: se proprio vogliono, vengano loro da noi, ma la casa delle destre di governo c’è già ed è quella dei conservatori. Questo girovagare indica che la fase più acuta del populismo è stata superata e che anche le nuove destre si devono misurare con l’apertura di un nuovo ciclo politico per loro spiazzante. Un indizio giunge dal maquillage che sarebbe in corso nel Rassemblement national della Le Pen a un anno dalle Presidenziali, riflettendosi per contrasto su Macron. «Svolta a destra», ha titolato qualche giornale riferito al presidente francese. Nel Paese che più ha sofferto il terrorismo internazionale c’è un dibattito acceso sull’identità nazionale, sulla laicità alla francese e sui rapporti fra i valori repubblicani e l’islam. Temi che avevano favorito la destra radicale e che ora segnalano una stretta da parte di Macron: la bozza governativa «per il rispetto dei principi della Repubblica» non convince affatto le Chiese di Francia (cattolica, protestante, ortodossa) che, in un appello su «Le Figaro», hanno denunciato i pericoli della norma sul «separatismo islamico» che coinvolge anche i cristiani.

L’ultima questione del puzzle europeo vede i grillini nuova maniera bussare, dopo tanto pendolarismo, alla porta degli eurosocialisti dove c’è il Pd. L’eventuale arrivo era stato preparato durante la segreteria Zingaretti. L’obiettivo era consolidare allora il governo Conte e formalizzare in sede europea, al livello più alto, un’alleanza nata proprio con il voto congiunto alla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. La trattativa, con le dimissioni di Zingaretti, è in stallo in attesa degli sviluppi romani con Letta alla guida del Pd. Ma anche questa interdipendenza riafferma la presa coerente del fattore Europa sulla politica interna, che non consente di tenere il piede in due scarpe.

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