Il metodo Draghi per centrare gli obiettivi

«Ce lo chiede l’Europa» segna il tempo della politica italiana. Al punto che stufi di sentirselo dire molti elettori si sono girati dall’altra parte e hanno cominciato a chiedersi perché allora non dire «ce lo chiede l’Italia». Almeno così ce la giochiamo in casa. Le fortune demoscopiche di alcuni partiti vengono anche da questo stato d’animo. Nel dibattito politico italiano l’Europa è una forza maggiore. L’inevitabile che tutti vorremmo evitare e che nessuno vuole prendersi sulle spalle.

I governi in Italia non hanno la forza di imporre ricette sgradite all’opinione pubblica e così demandano a Bruxelles. Il sistema politico in Italia favorisce il compromesso ovvero la pretesa di soddisfare tutti anche a costo di svuotare il risultato finale. Nei Paesi anglosassoni vale proprio il contrario. Il sistema elettorale lo suggerisce: uninominale secca, o dentro o fuori. La ragione è che l’eletto deve essere messo in condizione di non aver intralci. Ha una sola responsabilità: portare a termine l’impegno preso con gli elettori. Se ben guardiamo, è l’approccio portato dall’esecutivo di Mario Draghi sulla scena politica italiana. Una volta concordato un programma, la responsabilità sta solo nel realizzarlo. Un impegno che salta gli ammiccamenti, i favori personali, o anche le semplici attenzioni alla forza politica.

È consolidata tradizione della politica italiana sbandierare gli obiettivi senza mai indicare chiaramente cosa fare per raggiungerli. In questo iato tra la meta agognata e la sua realizzazione si crea lo spazio perché poi tutti abbiano la loro da dire. Chi si sente svantaggiato e chi invece ne trae profitto, tutti sono legittimati a tirare il presidente del consiglio di turno per la giacca. Il governo Conte annunciava le conferenze stampa alle venti di sera e appariva un’ora e mezza dopo.

Le mediazioni infinite caratterizzano l’azione di governo in Italia. Se però questa operazione, che si badi bene è assolutamente legittima ed è il sale della democrazia, la si svolge prima, si ha il vantaggio di renderla pubblica. Può richiedere più tempo, ma poi, una volta trovato l’accordo, il provvedimento è licenziato e si ha la certezza che andrà a compimento. E la grande conquista del «come». Nulla di nuovo per chi opera in campo imprenditoriale. Qual è quell’azienda che lancia un programma di lavoro e non indica come lo mette in opera. Solo chi lavora sui fatti sa che vi sono delle leggi che prescindono dalle volubilità degli attori coinvolti. Un sistema di produzione ha delle regole autonome, dei computer che indicano le modalità di esecuzione. Si possono cambiare, adattare ma poi vanno avviate se no il prodotto non arriva. Un modo di operare che però il mondo imprenditoriale non è riuscito a trasmettere alla vita pubblica italiana che è quindi rimasta invischiata nei bizantinismi della parte più retriva del Paese.

Il governo Draghi ha dato un taglio alle vecchie abitudini. Rivendica un diritto di prelazione sull’Unione Europea perché l’Italia è un Paese fondatore. L’Europa non è sorellastra o matrigna, l’Europa siamo noi. È un cambio di passo che si esprime nella necessità di fornire alla politica romana i ferri del mestiere che già operano nel resto del continente. Si chiamano le cinque W (wer, was, wann, wo und wie) col che si intende chi, cosa, quando, dove e soprattutto come. Abbiamo bisogno di una borghesia industriale che unita ai nuovi ceti urbani suggerisca la legge del pragmatismo alla politica. Le corporazioni della rendita pur di salvare i privilegi, rischiano di far dimenticare il peso dei 2.700 miliardi di debito, il 150% del Pil. «Forza debito» è uno slogan che non possiamo più permetterci.

© RIPRODUZIONE RISERVATA