Il partito conservatore: è un compito
ciclopico

POLITICA. Giorgia Meloni si è intestata la missione ciclopica di costruire un partito conservatore. Sì, ciclopica. Auguri, viene da dire. Ne ha oltremodo bisogno. La sua è, infatti, un’impresa da far tremare i polsi.

Non è mai riuscita a nessuno, anche perché nessuno ha mai avuto l’ardire di tentarla. Quali le ragioni di questa anomalia storica della democrazia italiana, unica in Occidente senza un partito conservatore rigorosamente liberal-democratico? I suoi fautori farebbero bene a riflettere su questo punto. Non è tempo perso. Prendere coscienza della sfida che si sono dati e dell’enormità degli ostacoli che sino a oggi ne hanno impedito il superamento eviterebbe loro di far fallire l’impresa prima ancora di cominciarla.

La Meloni – bisogna ammettere – è partita col piede giusto. Ha riposto in soffitta, in men che non si dica, tutto l’armamentario propagandistico che le ha spianato la strada verso Palazzo Chigi. Altrettanto prontamente ha sfornato un piglio e un linguaggio che l’hanno incoronata leader dello schieramento di centro-destra in Italia e di capo di governo credibile in Europa. Ma questa è solo la precondizione per dar vita a un partito conservatore. Manca un po’ tutto il resto. Una classe dirigente all’altezza del compito. Un pensiero politico che sorregga l’ambizione di mettersi alla pari con la sinistra, una forza - questa sì - ben più attrezzata e usa a maneggiare la cultura. La destra ha una sconfinata distesa di terra da dissodare, prima ancora di poterla coltivare. In un secolo e mezzo di storia nazionale non s’è visto nulla che abbia avuto anche la più pallida sembianza di un moderno partito conservatore. Estremizzando, si potrebbe dire che nel Dna della destra italiana è mancato proprio il gene del partito conservatore.

Ha detto un saggio che la natura delle cose sta nel suo cominciamento. Così è stato per la politica italiana. È nata nel nome di una missione rivoluzionaria: sovvertire l’ordine europeo, abbattere le corone regnanti della Penisola, dar vita a una nuova nazione e a un nuovo regime politico sulle macerie dell’ordine preesistente. Questo è toccato in sorte alla destra italiana quando ha mosso nell’Ottocento i suoi primi passi. Si distinse dalla sinistra per i modi in cui voleva compiere questa missione, non sull’impegno a compierla.

L’atto di nascita della destra prevedeva insomma che compisse una rivoluzione. L’opposto di quello che dovrebbe fare una forza conservatrice. Da allora in poi, non c’è ombra nella storia d’Italia di una cultura politica, tanto meno di un progetto, di marca conservatrice. Nemmeno il cattolicesimo, che pure all’inizio avversò duramente la classe politica liberale, insediatasi alla testa del nuovo Stato unitario, nato da una rivoluzione, espresse mai un pensiero convintamente conservatore. Si attrezzò anzi in senso moderno con un programma socialmente avanzato per portare dalla sua parte masse affascinate dall’utopia socialista. Quel che non ha fatto il liberalismo nel far terra bruciata del conservatorismo, si è incaricato poi di farlo il fascismo. Mussolini ha incorporato e, quando non c’è riuscito, ha sequestrato quel poco che era rimasto della destra ottocentesca. Per questo motivo, al sorgere della nostra Repubblica la destra si è trovata senza chance: sfigurata perché identificatasi con fascismo o resa impresentabile perché compromessa con la dittatura. Il suo spazio si era desertificato. Far germogliare ora una pianta capace di far crescere una foresta è il compito ciclopico che la Meloni dovrà saper fare se vuole costruire un moderno partito conservatore. Auguri. La democrazia italiana non avrebbe che da guadagnarci.

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