Il Pd svolta a sinistra
ma il governo
è di tutti

Pace fatta? Pace fatta. Almeno così dice Enrico Letta, reduce da un’ora di incontro con Mario Draghi. Motivo: la lite tra il Pd e il presidente del Consiglio sul «no» di quest’ultimo alla proposta di Letta di ritassare le successioni così da finanziare una «dote» di 10 mila euro per aiutare i giovani a cominciare ad affrontare la vita. «Non se ne è mai parlato, non se ne parla» aveva detto Draghi, come al solito di poche ma chiarissime parole, per poi aggiungere: «Non è il momento di aumentare le tasse, ma di diminuirle». E Letta c’era rimasto davvero male. Ma non era certo solo questo attrito il motivo dell’incontro: ci sono in ballo anche le nomine - tante - che il governo deve fare e, a quanto pare, con scarsa o nulla considerazione per le richieste dei partiti che si trovano tagliati fuori dalle scelte.

Palazzo Chigi ha già cominciato a metter mano ai rinnovi dei vertici delle società partecipate dal Tesoro ed è partito da Ferrovie e Cdp: come è successo già altre volte, i segretari della maggioranza sono stati avvertiti a cose fatte, solo qualche ora prima della ufficializzazione dei nuovi vertici scelti soprattutto grazie alle agenzie internazionali di «cacciatori di teste». Questo non piace a Letta ma nemmeno agli altri segretari, e quindi il nervosismo è generale. Anche se va detto che quello del capo democratico ha qualcosa in più: sin dal suo ritorno a Roma da Parigi, Enrico ha pensato di poter considerare l’esecutivo tecnico-politico messo in piedi da Mattarella come una cosa molto affine al mondo del centrosinistra, inteso come serie di ambienti dove «i migliori» trovano l’accoglienza a loro più confacente: «È il nostro governo» diceva qualche tempo fa.

Del resto in passato successe esattamente così, sia con Ciampi che con Dini, e anche quelli di Prodi furono, a ben guardare, governi «tecnico-politici» zeppi di professori e di super consulenti. Draghi però ha subito fatto capire che lui non è al rimorchio di nessuno pur essendo un uomo di ispirazione liberal-socialista e quindi sicuramente più vicino al Pd che non, per dire, alla Lega o a Forza Italia. E però non prende ordini da nessuno, semmai si consulta con il Quirinale, con Bruxelles, con i suoi tanti potenti amici nel mondo, a cominciare da quelli di Washington. Letta ha capito benissimo questa antifona e ha voluto l’incontro proprio per poter dire al mondo che lui e Draghi non hanno mai litigato. Cosa che poi, al fondo della questione è plausibilissima: il segretario del Pd e l’ex presidente della Bce appartengono, sia pure a livelli diversi, allo stesso establishment internazionale e dunque non potranno mai veramente farsi la guerra.

Resta il fatto che il profilo «di sinistra» che Letta ha voluto dare alla sua segreteria (ius soli, ddl Zan, voto ai sedicenni, tassa successione, ecc.) serve a ricompattare i vari spezzoni del «mondo che fu» in vista delle elezioni, prima amministrative ad ottobre e poi politiche quando sarà, in modo tale da restituire al Pd post renziano quella centralità ormai perduta elettoralmente e politicamente. Però in prospettiva lo spostamento gauchiste porta i democratici in rotta di collisione con le altre componenti della maggioranza di governo - e infatti la polemica con Salvini, di tipo identitario, è quasi quotidiana - creando fastidi e problemi anche a Draghi. Dal quale sarà sicuramente arrivato un consiglio al suo interlocutore: costruisciti il Pd che ti pare però ricordati che io guido un governo di (quasi) tutti voluto dal Capo dello Stato per gestire l’emergenza pandemica e i soldi dell’Europa quindi datti una regolata. Poi, forse per non lasciare andar via il segretario del Pd a mani vuote, ha detto sì alla cancellazione delle norme del decreto semplificazioni bis favorevoli al massimo ribasso, osteggiato da sinistra e sindacati.

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