Il pericolo alle porte che l’Italia non sente

IL COMMENTO. Sono ormai 18 i mesi di guerra in Ucraina. Naturale che il sostegno prima incondizionato a Kiev si stia affievolendo, che l’opinione pubblica si chieda preoccupata quando avrà mai fine questa sequenza infinita di morti, di distruzioni, di sofferenze. Per non dire del pericolo di un allargamento del conflitto all’intera Europa. Il partito del «no armi» all’Ucraina si ingrossa.

I governi occidentali cominciano a temere di non poter reggere ancora a lungo il peso dell’appoggio a Kiev, mal visto dalla popolazione anche per i costi economici crescenti che comporta. Giusto, doveroso quindi che si promuova, prima che sia troppo tardi, un’iniziativa diplomatica capace di porre termine alla tragedia in corso. Giusto, doveroso anche che ci si divida sulle politiche da attuare per scongiurare il protrarsi indefinito della carneficina. Un punto, però, deve restare ben fermo: che l’aggressore di ieri si candida ad essere l’aggressore di domani. Putin non ha mai fatto mistero di sentirsi investito di una missione storica: riportare la Madre Russia alla guida di un Impero attraverso un ridisegno dell’assetto geopolitico del Vecchio continente e della liquidazione della civiltà liberale. Un disegno, il suo, che ha tutte le caratteristiche del nazionalismo aggressivo degli anni «entre deux guerres». a specie, anzi suscita allarme che proprio nel nostro Paese, distintosi in questo lungo dopoguerra come vigile sentinella della democrazia riconquistata, ci sia ancora chi fatica a cogliere il pericolo di reviviscenza di un imperialismo che non è azzardato considerarlo di marca fascista.

L’Italia è stata la culla del fascismo. Ha inaugurato in Europa l’epoca delle dittature. Ha dato vita alla dittatura più longeva. Ce ne sarebbe abbastanza perché gli italiani fossero sempre sul chi va là: attenti a lanciare l’allarme ogni volta che appaia all’orizzonte anche un solo indizio di risurrezione del fantasma fascista. Così è in effetti quando scorgono anche un solo piccolo segnale in casa propria. È bastato il braccio alzato di un ufficiale alla festa del 2 Giugno per suscitare un mezzo scandalo. Scandalo pieno poi si è verificato quando qualche politico ha osato parlare di riforma della Costituzione, subito equiparata ad un attentato autoritario. Sul quotidiano di Scalfari, Craxi, promotore della Grande riforma presidenzialista, fu raffigurato in divisa fascista. Cavaliere nero è stato etichettato Berlusconi per le sue simpatie presidenzialiste. Bossi il secessionista fu cacciato dal corteo del 25 Aprile. Renzi è stato bollato come aspirante despota per la sua riforma favorevole al premierato. La Meloni? Non parliamone. Vige la tolleranza zero in terra italica sul pericolo fascista. Non così quando si volge lo sguardo oltre frontiera.

Se ci ritrovassimo a Palazzo Chigi un autocrate, di fatto inamovibile, feroce con gli oppositori (incarcerati, quando non avvelenati), insofferente al dissenso (soffocato con il carcere), saldamente al vertice di una piramide di potere repressivo, dispensatore di privilegi e ricchezze a una rete di oligarchi fedeli, massicciamente impegnato in un piano imponente di armamenti (atomici), nemico dichiarato della civiltà democratica, minaccioso con i Paesi confinanti: chi non griderebbe «il fascismo è tornato»? Non se l’autocrate siede in una capitale estera, al Cremlino. Allora scatta la comprensione. Talora anche la solidarietà. Ci aspetteremmo che sentimenti del genere scaldassero il cuore solo dei nostalgici che non mancano certo da noi e di quella fascia di opinione pubblica, molto larga, che lamenta la mancanza dell’uomo forte. Purtroppo, invece, lo zar di tutte le Russie spopola anche là dove non penseremmo mai, in frange corpose della sinistra. Un appoggio quasi mai esplicito. Per lo più, obliquo e nutrito da anti-americanismo. Paradosso di una cultura democratica in servizio permanente effettivo a vigilare sul pericolo fascista che, però, non riconosce il fascismo quando davvero compare.

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