Il processo a Israele, incertezze e ipocrisie

L’ANALISI. È iniziato un processo a Israele. Già questa, considerate le particolarissime vicende storiche dello Stato ebraico, è una notizia.

Un processo che, per di più, si svolge davanti alla Corte internazionale di giustizia, il principale organismo giudiziario delle Nazioni Unite, tra i cui fondatori, nel 1945-1946, cioè nel mondo che ancora andava accertando gli orrori della Shoah, ci fu proprio Israele. È stato il Sudafrica a trascinare Israele in questo tribunale, accusandolo di violare l’articolo 9 della Convenzione di Ginevra (ratificata dal Parlamento israeliano nel 1950) per la prevenzione del genocidio, oltre che lo Statuto di Roma che nel 1948, per la prima volta, definì il reato di genocidio. In altre parole, il Sudafrica (che ha posto alla guida dell’accusa il proprio ministro della Giustizia, Ronald Lamola) accusa Netanyahu e i suoi di coltivare «l’intento specifico di distruggere i palestinesi di Gaza». Israele, com’è ovvio, respinge ogni accusa e, anzi, si definisce vittima di un tentativo di genocidio, quello posto in essere da Hamas con l’attacco terroristico del 7 ottobre.

Prevedere come andrà a finire in aula è di fatto impossibile. C’è chi ha fatto il conto dell’origine dei 15 giudici della Corte, per tentare un pronostico legal-politico: sei presumibilmente pro Israele (Slovacchia, Usa, Francia, Giappone, Germania e Australia), altrettanti pro palestinesi (Somalia, Cina, Marocco, Brasile, Russia e Libano), gli altri tre (Giamaica, Uganda e India) da vedere. Ma non ha senso: dove sta scritto che i giudici si esprimeranno in base a una linea statale e non alle proprie personali convinzioni? In ogni caso, e comunque vada a finire, questo processo è destinato a lasciare un segno profondo nel dibattito politico internazionale.

Intanto, è bene precisare che la Corte internazionale di Giustizia non è parente della Corte penale internazionale, anche se entrambe hanno sede all’Aja, in Olanda. Quest’ultima si occupa di crimini di guerra e contro l’umanità commessi da individui ed è stata quella, per citare il più recente esempio, che ha spiccato un mandato di cattura contro Vladimir Putin per le azioni dell’esercito russo in Ucraina e il trasferimento in Russia di bambini ucraini. La Corte internazionale, invece, si occupa di controversie tra Stati membri delle Nazioni Unite e regola l’applicazione del diritto internazionale. La sua sentenza su Gaza farà giurisprudenza e servirà da precedente per le sentenze successive. La Corte internazionale, inoltre, può emettere «misure cautelari», può cioè decretare (per esempio) che Israele deve interrompere le ostilità e permettere l’aiuto umanitario ai palestinesi di Gaza. Può, ma non è detto che lo faccia. Se uno guarda ai precedenti, nota che nel 2015, dopo un lunghissimo dibattito, la Corte internazionale ha sentenziato che tra il 1991 e il 1995 in Croazia e in Serbia non vi fu genocidio. E commenti in questo senso, seppure non ufficiali, sono arrivati anche a proposito della guerra russa in Ucraina. Basteranno i quasi 24mila morti (per il 60% donne e bambini), i quasi 60mila feriti, gli 8mila dispersi, il 70% delle case distrutto a far condannare Israele, che a sua volta ha subìto un attacco di incredibile violenza? In più, c’è un fatto: tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite hanno accettato la competenza della Corte internazionale, ma Israele (con l’appoggio degli Usa, che hanno già escluso che si possa parlare di genocidio a Gaza) ha una lunga tradizione nell’ignorare risoluzioni e disposizioni varie dell’Onu.

E in questa incertezza sta il peso dell’iniziativa del Sudafrica. Se la Corte dovesse condannare Israele, avremmo una vittoria non dei palestinesi, che continuerebbero a prendersi le bombe, ma del vasto fronte dei Paesi che ritengono discriminatorie le politiche occidentali e puntano a logorarne la presa. Ma se la Corte manderà assolto Israele, la vittoria sarà dei Paesi come Cina e Russia, che direbbero al Sud del mondo: visto? Loro possono permettersi ciò che vogliono, noi vi rispettiamo e vi trattiamo alla pari. Messaggio ipocrita ma che, come dimostrano i mille varchi trovati dalla Russia per aggirare le sanzioni, ha già raggiunto molte orecchie.

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