Il rischio, Draghi corre
le divisioni nei partiti

È la prima volta che Draghi alza il sopracciglio, e anche il tono di voce, bacchettando i partiti con una punta di fastidio e togliendosi più di un sassolino. L’impatto mediatico è stato tradotto con termini come «vendetta», «spallata». Mentre il premier sta per iniziare l’«operazione empatia» con l’opinione pubblica, visitando alcune città, per tastare il polso del Paese reale e verificare di persona anche il gradimento suo e dell’esecutivo, dice esplicitamente che sarà meno accomodante di prima con le forze politiche. Se fin qui s’era notata una sorta di rispettosa neutralità istituzionale verso i partiti, condita con non poca pazienza, ora la situazione potrebbe cambiare. Lo s’è visto bene con la sferzata ai grillini sul Superbonus del 110%. Il messaggio di Draghi, preso alla lettera, è che non ha alcuna intenzione di accettare nuovi incarichi e che con la guida di questo governo finirà anche la sua esperienza politica.

Non cede il proprio brand a nessuno, blocca subito chi lo vorrebbe arruolato quale federatore di un ipotetico Centro o premier pure nel 2023: «Lo escludo. Chiaro? Fine». Se qualcuno intendeva strumentalizzare il valore aggiunto di SuperMario, o coprire le proprie insufficienze con quel nome, dovrà farsene una ragione.

Parole assai diverse da quelle pronunciate alla conferenza stampa del 22 dicembre, i giorni del «nonno al servizio delle istituzioni». Di mezzo c’è stata la travagliata partita per il Quirinale con la strada sbarrata proprio al premier. La mancata elezione alla presidenza della Repubblica brucia e adesso ci manca solo che chi non lo ha voluto al Colle voglia pure decidere del suo futuro: ci sembra questa la libera interpretazione della presa di distanza del presidente del Consiglio verso i partiti, o almeno verso quelle aree che lo hanno subìto.

Gli strascichi della corsa al Colle stanno avendo quindi un triplice effetto: disarticolano il centrodestra, allontanano l’alleanza fra Pd e grillini con il rilancio del conflitto interno fra Conte e Di Maio, rimodulano il rapporto fra Draghi e la maggioranza. Proteggendo il proprio profilo istituzionale, Draghi sarà meno negoziatore e più determinato, rilanciando l’azione dell’esecutivo (messa a terra del Pnrr) dopo il rallentamento dell’ultimo mese. Del resto la congiuntura è molto seria, se non drammatica. A cominciare dal caro-bollette e dall’inflazione trainata dai rincari energetici, mentre il conflitto diplomatico-militare al confine fra Ucraina e Russia volge al peggio e la Libia è tornata nel caos. Una serie di choc nel nostro cortile di casa e di quello europeo.

Un governo che intende semmai accelerare e da qui il monito a chi immagina fuori dalla realtà un governo balneare o elettorale. Attenzione, però. Fra pochi mesi ci sarà una nuova tornata elettorale in 970 Comuni, fra i quali 21 capoluoghi di provincia e città come Verona, Padova, Genova, Lucca, Palermo. In quattro Regioni (Piemonte, Liguria, Basilicata, Sicilia) il centrodestra sta già litigando, mentre nel centrosinistra si affaccia una tregua con Renzi nella prospettiva delle urne del prossimo anno: un modo pratico per comunicare all’esterno che i dem stanno valutando le alleanze per le prossime sfide elettorali e che l’asse giallo-rosso potrebbe non essere l’unico in campo, dato che l’incontro fra Letta e Conte s’è allontanato dopo gli scrutini quirinalizi. I rischi sono due: che le divisioni nei partiti remino contro l’ultimo tempo del governo e che, in assenza di qualche pronto intervento (una nuova legge elettorale), le elezioni politiche del 2023 radicalizzino la crisi di sistema dei partiti. Quella che ha segnato la legislatura più controversa della storia repubblicana.

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